Pasolini fu ucciso ad Ostia, nella notte fra il lº e il 2 novembre di trentacinque anni fa. Ricordo ancora la voce roca del cronista che dava la notizia accompagnata da immagini che facevano vedere il corpo straziato e abbandonato in un campetto. Un corpo circondato da poliziotti che svolgevano i loro rilevamenti sul luogo del massacro e una massa di curiosi che li attorniavano, rendendo il loro lavoro più difficoltoso e sicuramente contaminando le tracce e le prove che avrebbero dovuto fare chiarezza su un delitto così efferato e di cui a tutt’oggi non si hanno conclusioni certe. Un corpo che, nella drammaticità di una morte violenta, sembrava urlare una frase tratta dalla Bibbia: “Questo è il mio corpo” (Matteo 26, 26). Esibito, offerto, amato, preso infine a bastonate, il corpo di Pasolini è il luogo privilegiato dell’epifania del sacro. Un corpo cristologico che, fa dire a Michael Hardt (teorico della letteratura e filosofo della politica americano): “Pasolini è affascinato dall’offrirsi senza pudore del corpo di Cristo sulla croce. Le sue ferite sono aperte. Tutto il suo corpo – petto, ventre, sesso e ginocchia – brucia sotto gli sguardi della folla. Al momento della morte, Cristo è tutto corpo, un pezzo di carne aperto, abbandonato, esposto”. Ma come nel caso del Cristo, di quel Cristo cercato e vagheggiato nel corpo, prima che nell’anima, nonostante questo donarsi, questo esporsi e ofrirsi, sembra quasi che Pasolini non chiuda mai il discorso sulla sua opera. Ben prima che la sua morte violenta gliene impedisse il completamento, l’incompiutezza era il dato più frequente nelle sue opere. Basti pensare ai molti testi dichiaratamente non finiti che Pasolini ha ugualmente dato alle stampe. Ed è proprio per questo carattere di “non finito”, di incompiuto, che l’opera di Pasolini continua a disporsi sempre a nuove letture e riletture. Il caso Pasolini infatti è ancora avvolto da dubbiose tesi che hanno tenuto acceso il dibattito e lo studio di questo personaggio così controverso del mondo intellettuale e politico italiano. L’ampiezza e la varietà della sua opera hanno prodotto nel corso degli anni una grande mole di letteratura critica. E tuttavia a 35 anni di distanza dalla sua morte, Pasolini continua a essere oggetto degli studi più diversi, accademici e non. La figura di Pasolini va ben oltre il suo ruolo di scrittore, drammaturgo e di regista. Cerco di sapere quello che i libri, i giornali, i dettagliati siti web mi possono dire di Pasolini, testimonianze che mi aiutino a farmi ulteriori domande. Tutto ciò perché mi sembra che i dubbi siano ancora troppo pochi. Ho sempre desiderato in cuor mio che egli potesse diventare un punto di riferimento per tutti, ma chi mai vuole essere importante per tutti? Ecco altre domande che mi affollano la mente. Sicuramente di Pasolini, uno che aveva parlato e scritto e raccontato di tutto, le cose più importanti non le sapremo. Ci sono nella vita di una persona così esposta, così evidente, così discussa, cose importanti che non sapremo mai. Da anni leggo e schedo l’opera di Pasolini e mi faccio prendere da questa febbre della raccolta con l’ansia di non saperne abbastanza, di non poterne parlare, di non riuscire a delimitare tanta ricchezza di pensieri e di tormenti. Pasolini mi manca, o meglio ci manca. Ci mancano la sua critica, la sua poesia. Pasolini ha sempre cercato il contatto reale con la vita, con le persone reali e con la realtà sociale. Era un poeta impegnato nei confronti del genere umano, vicino alla gente. La qualità del suo impegno ha superato le frontiere italiane e ci aiutato (e ci aiuta) a vedere meglio il mondo. Oggi, nell’Italia berlusconiana, disfatta a volte nell’estetica e nella morale, Pasolini avrebbe avuto molte cose da dire. Avrebbe scritto forse un testo straordinario o girato un film terribile. Pasolini non ha visto questo mondo ma, in qualche modo e sotto molti aspetti, lo ha anticipato dandoci anche una precisa chiave di lettura. Il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, un film insostenibile, ma terribilmente attuale, ci mostra e denuncia, secondo me, la deriva terribile della nostre società. Oggi sempre più abbiamo a che fare con un sistema che ha sacrificato la dignità e l’umanità per il denaro e l’apparenza. A lui non bastava scrivere libri e girare film, aveva un gran difetto: ragionava ad alta voce dalla prima pagina di un importante giornale italiano, dove denunciava: “… Io so i nomi degli autori delle stragi… “ e chiedeva un processo per coloro che da trent’anni erano al governo del Paese. E, credo a questo punto, che anche la sua morte nasconda una metafora segreta. Ella giunge orribile e cruda al culmine di una guerra segreta che fu combattuta in Italia a colpi di bombe, stragi, progetti di golpe, depistaggi di Stato, mentre stava lavorando a un’opera che avrebbe sanato ogni contraddizione con l’intento di unire l’inconciliabile: Petrolio. Un grande romanzo di 2000 pagine che doveva essere anche il “preambolo di un testamento”, la sua ultima risposta al mondo. Secondo le sue note doveva essere un libro-vertigine in cui confluiscono immaginazione e realtà, giornalismo e lettura, in cui, senza compromettersi, ci sono i fatti e i nomi. Doveva essere la sua ultima opera ma non poté essere conclusa perché la sera del lº novembre iniziò il suo ultimo viaggio notturno. Per Pasolini quella fu una notte particolare, non una scorribanda alla ricerca di compagnia e di sesso, bensì la ricerca disperata e folle delle pizze rubate del suo film Salò. Lo racconta Guido Calvi, avvocato del Comune di Roma, Parte civile nell’ultima inchiesta (aperta e poi subito chiusa) sull’assassinio di Pasolini. Le pizze erano state rubate qualche tempo prima a Cinecittà. Era sparito Salò ma anche il Casanova di Fellini e una pellicola di Damiano Damiani. Quegli strani ladri avevano tentato il colpo, avevano richiesto un riscatto altissimo: 2 miliardi! Il produttore Alberto Grimaldi aveva respinto la richiesta anche perché le pizze rubate erano sì preziose, ma non uniche: si poteva stare senza. Ma Pasolini non rinunciò al tentativo. L’amico regista Sergio Citti ha raccontato prima di morire che Pier Paolo aveva ricevuto alcuni messaggi, aveva avuto la promessa che gli avrebbero restituito Salò, e gratis. Così lo attirarono nella trappola finale o forse si lasciò attirare, come il Cristo, appunto, dopo l’inutile confronto col Sinedrio e Pilato. Pasolini fu in vita tanto odiato quanto rivalutato, ipocritamente, dopo la morte. Cantò l’innocenza di un mondo rurale quasi perfetto, scomparso con l’avanzata della modernità. A Roma, dove si trasferì giovanissimo, lavorò come insegnante nelle borgate, cominciò a scrivere romanzi, poesie, saggi e a dirigere film. Incontrò i “ragazzi di vita” e li raccontò con un linguaggio crudo ed inarrivabile. Denunciò crimini di potere democristiano, liberalizzazione dell’aborto, televisione, pubblicità, consumi, politica scolastica. Insultato a destra, osteggiato dai cattolici, mal sopportato dalla sinistra, fu sempre comunista, ma dopo gli scontri di Valle Giulia a Roma stupì tutti parteggiando per i poliziotti, figli ignari e indifesi del popolo, contro gli studenti, figli della borghesia. Riscoperto poi dai politici, dalla destra e adottato dalla Lega, per via degli studi dialettali, continua a far discutere. Non smette di stupire. A più di trent’anni dalla sua scomparsa, Pier Paolo Pasolini manca a tutti, a chi l’ha amato, a chi l’ha conosciuto, a chi avrebbe voluto conoscerlo e a chi non farebbe male a conoscerlo. Manca molto anche a chi l’ha odiato e che spesso, per diverse ragioni, l’ha rivalutato. Probabilmente il fascino di Pasolini oggi sta anche nel suo essere eretico. La sua ostinata, angosciosa ricerca di comprensione della realtà, la speranza di arrivare a capire ciò che voleva, si sono trasformate fatalmente, come nel caso di altri eretici, in una spaventosa macchina da guerra di persecuzione, di esclusione e alla fine di condanna.
Carlo Di Stanislao
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