ACQUA. LA MISTIFICAZIONE AL POTERE

L’acqua rappresenta l’emblema della relazione popolazione-risorse e la privatizzazione dei servizi idrici realizzata dal parlamento italiano, che ha convertito in legge un decreto del governo sul quale era stata posta la questione di fiducia, solleva problemi e interrogativi non solo in ordine a interessi, obiettivi ed effetti, ma anche rispetto alla modalità con cui avviene […]

acquaL’acqua rappresenta l’emblema della relazione popolazione-risorse e la privatizzazione dei servizi idrici realizzata dal parlamento italiano, che ha convertito in legge un decreto del governo sul quale era stata posta la questione di fiducia, solleva problemi e interrogativi non solo in ordine a interessi, obiettivi ed effetti, ma anche rispetto alla modalità con cui avviene e alle motivazioni a sostegno. Il 18 novembre scorso, infatti, è stato convertito in legge il decreto 135 “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia CE” all’interno del quale è stato inserito l’art. 15 che privatizza, di fatto, la gestione dei servizi idrici stabilendo il loro conferimento “in via ordinaria a favore di imprenditori o società […] e a società a partecipazione mista” e in via straordinaria a società a capitale pubblico. Tuttavia, contrariamente al titolo della legge, non esiste alcun obbligo comunitario per le imprese pubbliche di trasformarsi in società private (come ribadito da: Corte di giustizia CE, 2005; Commissione CE 2003 e 2006; Parlamento CE, 2006). Del resto sono numerosi i Paesi europei che hanno stabilito per legge la gestione pubblica dell’acqua (Belgio, Olanda, Austria, Lussemburgo, Norvegia, Svezia), e diffusi i casi di ripubblicizzazione a partire dalla Francia e da Parigi – sede delle prime due multinazionali mondiali del settore (Veolia e Suez) – che, dopo 25 anni di gestione privata, ha deciso di ripubblicizzare, incoraggiando le municipalità della regione a fare lo stesso.

La discussione sulla natura dell’ente gestore non è dottrinale ma sostanziale poiché la forma giuridica dell’impresa, lungi dall’essere neutra, ne definisce gli obiettivi. Nel caso di una società disciplinata dal diritto privato (art. 2247 c.c.), anche se a capitale pubblico, l’obiettivo è il profitto che sarà tanto più alto quanto più elevati saranno i ricavi e minori i costi. 

In Italia, però, si gioca con le parole e i fautori della privatizzazione sostengono a gran voce che ciò che si privatizza non è l’acqua ma la sua gestione, e propagandano i benefici che la concorrenza apporterebbe agli utenti (o, meglio, ai clienti) come la diminuzione delle tariffe, l’aumento degli investimenti e il miglioramento dell’efficienza. Ma la propaganda, soprattutto se costruita su asimmetrie informative, contribuisce a creare una percezione basata su convinzioni (piuttosto che conoscenze) facendo aumentare la distanza fra realtà e credenze. Del resto, le voci discordi, quando hanno accesso allo spazio mediatico, sono presentate e rappresentate, in genere, come ideologiche.

In realtà, come sostiene Raffestin in Geografia del potere, “il potere si sforza di scegliere il sistema che corrisponde meglio al suo progetto, a costo di sconvolgere l’esistenza di quanti vi sono sottoposti” (p. 72); e nel caso specifico il sistema, costruendo le sue tesi sulla mistificazione, sta consegnando la gestione di un bene vitale (e, dunque, il controllo e l’accesso) ai privati, alla logica del profitto e della finanza, espropriando cittadini ed Enti locali di un diritto e di un bene comune. 

Ma andiamo per ordine. I servizi idrici possono essere gestiti in un mercato di concorrenza? La risposta è no, perché sono prodotti in condizioni di monopolio naturale, caratterizzato da costi fissi rilevanti per infrastrutture e impianti, economia di scala ed esclusività territoriale (cioè assenza di minacce competitive). In pratica, e come intuibile, il servizio idrico in un dato territorio può essere erogato solo da un’impresa. Dunque, l’unica “concorrenza” possibile è quella per il mercato: le grandi imprese, attraverso le gare di appalto, si contendono la concessione in esclusiva per un dato periodo con effetti ben diversi da quelli di un mercato di concorrenza. Infatti, la concorrenza per il mercato, come l’evidenza empirica dimostra, si sostanzia nella riduzione dei costi operativi che, lungi dal trasferire benefici agli utenti, si traduce in precarizzazione e diminuzione della sicurezza sul lavoro, peggioramento della qualità e della diffusione del servizio, deterioramento delle pratiche di tutela ambientale. A questo si aggiunge, sul piano politico, l’acquisizione privata di un monopolio e di un settore vitale e strategico per la produzione, il benessere individuale e sociale, che richiederebbe meccanismi istituzionali di controllo amministrativamente complessi ed economicamente onerosi. Del resto, anche in paesi con un’elevata capacità istituzionale, come il Regno Unito, “le privatizzazioni sono andate a discapito del pubblico interesse” (UNDP, 2006, p. 128). Dall’assunto della concorrenza derivano tre leggende metropolitane come dimostra, insieme a tanti altri, il caso di Arezzo, la prima città in Italia a privatizzare.

La prima attiene alla diminuzione delle tariffe che, tuttavia, non si è mai realizzata a seguito di una privatizzazione. Infatti, essendo il servizio idrico un monopolio naturale, il prezzo non è determinato dalle regole della concorrenza ma imposto dal monopolista e, nel caso di un’impresa privata, la tariffa deve coprire non solo i costi di esercizio, ma anche gli investimenti e gli utili. Inoltre, la massimizzazione del profitto spinge l’impresa a estendere i servizi solo se c’è convenienza economica, vale a dire se i ricavi sono superiori ai costi. Tale meccanismo induce ad attuare politiche da un lato di incentivo dei consumi e/o di aumento dei prezzi, dall’altro di riduzione dei costi di gestione penalizzando gli utenti a reddito basso o le cui abitazioni siano localizzate in territori isolati o demograficamente “irrilevanti”. Gli effetti economici si trasferiscono nella sfera sociale determinando una diminuzione del potere di acquisto e, in caso di morosità, il distacco della fornitura di un bene vitale (anche in quei casi, come Acqualatina SpA, in cui tale atto è stato vietato dal tribunale; o in altri, come l’Acquedotto pugliese, in cui la SpA è ad azionariato pubblico).

La seconda leggenda concerne l’aumento generalizzato delle tariffe come politica di risparmio idrico. In realtà, essendo l’acqua un bene essenziale, la sua domanda per la soddisfazione dei bisogni primari è rigida e, dunque, poco sensibile alle variazioni dei prezzi, con la conseguenza che difficilmente un aumento del prezzo anche cospicuo ne contrae il consumo. Il risultato è, piuttosto, quello di ridurre il potere di acquisto degli utenti più poveri. Del resto, se il profitto è l’obiettivo di gestione, una contrazione della domanda non può che ripercuotersi sulle tariffe determinandone un aumento, come accaduto a Firenze dove la diminuzione dei consumi di circa 13,8 milioni mc (dovuta a una campagna per il risparmio idrico) ha ridotto le entrate di circa 30 milioni di euro e Publiacqua (SpA a capitale misto) ha incrementato le tariffe del 9,5% (www.acquabenecomune.org).

La terza leggenda metropolitana riguarda la necessità di privatizzare per aumentare la disponibilità finanziaria per gli investimenti. In realtà, la maggior parte degli investimenti sono “coperti” dalle tariffe e, comunque, nel caso di gestioni private risultano piuttosto contenuti e, a volte, finanche inferiori a quanto previsto nei contratti. Il Rapporto del COVIRI (2008) indica, a seguito dell’apertura ai privati, una riduzione degli investimenti previsti (di circa 2/3) e attuati (meno della metà, con riferimento a una media di tre anni) e l’istat, nel rapporto sullo stato degli acquedotti 2008, segnala un regresso nella capacità di distribuzione della rete idrica rispetto al 1999.

Poiché l’informazione è causa e strumento del potere (Corna Pellegrini, Dell’Agnese, 1995, p. 125) l’apertura ai privati si accompagna a una campagna mediatica volta a screditare il servizio pubblico. Pare un dèjà vu. Queste parole, che scrivevo a proposito della privatizzazione dell’acqua in Bolivia, oggi sembrano adattarsi bene all’Italia. Un aspetto curioso deriva dal fatto che, fra chi grida all’inefficienza statale, agli sprechi e ai cattivi servizi, ai carrozzoni pubblici che distribuiscono poltrone, ci sono anche i politici che su quelle poltrone siedono. Del resto spesso il clientelismo e la corruzione sono connessi alla privatizzazione, come dimostrano i casi della COGESE a Grenoble e di Acqualatina (e altri che coinvolgono Veolia e Suez). In effetti, tali “costumi”, lungi dall’essere prerogativa del pubblico, sono piuttosto il frutto di una “cultura” e di una mentalità in cui l’interesse particolare (del burocrate come del manager) prevale sull’interesse comune. Difatti, un altro aspetto che solleva il D.L. 135 è la questione della democrazia, vale a dire la capacità del popolo di governare la res publica, la casa comune per il bene comune. In tal senso il primo punto da rilevare è che la privatizzazione dell’acqua sia stata sancita con un D.L. sul quale è stata posta la fiducia, sottraendo la decisione al dibattito parlamentare. Inoltre, l’art. 15 si pone agli antipodi della legge di iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dei servizi idrici – sottoscritta da oltre 406.000 cittadini (a fronte di 50.000 firme necessarie) – ferma alla Commissione ambiente della Camera da più di 2 anni. L’art. 15 non tiene in considerazione neppure le centinaia e centinaia di amministrazioni (di coalizioni diverse) che con delibera hanno sostenuto la legge di iniziativa popolare e che hanno creato il Coordinamento degli Enti Locali per la ripubblicizzazione dei servizi idrici. Del resto è stato ignorato anche il CNEL che in un documento del 5/6/08 dichiarava che “i soggetti gestori è opportuno che vengano configurati come enti pubblici”. 

Dunque, se la decisione sulla gestione di un bene vitale come l’acqua è affidata a un parlamento privato di ogni potere se non quello di confermare o togliere la fiducia al governo, senza alcuna considerazione della volontà popolare, delle istanze espresse da molti Enti locali (governati da coalizioni diverse) e neppure della posizione di un organo costituzionale, si può dire ancora che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”? E allora, chi decide realmente sulla gestione della risorsa? A nome di chi? Sulla base di quale legittimità?

Forse è il caso di “rispolverare” Machiavelli? Forse siamo in presenza della prevalenza della “ragion di stato”? E nel caso, di quale “ragione di stato”? La cosa certa è che dopo che il governo ha posto la fiducia sul D.L., il valore delle azioni delle società del settore idrico è salito sensibilmente. Forse è giunto il momento di interpretare quello che accade alla luce delle relazioni fra potere finanziario e potere politico e di analizzare le strutture di potere che, come sostiene Petrella (2008), “scappano” al controllo democratico fino a imporsi a esso.

Margherita Ciervo 

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