Un mondo strano e micidiale il nostro, difficilmente comprensibile, con problemi comuni fra parti tanto diverse, con adolescenti che credono solo nell’apparire e non nel duro impegno, indipendentemente dalla nazione e dall’età. Neha Sawant, una bambina indiana di undici anni, famosa per aver partecipato con successo in “reality show” di ballo a Mumbai, si è impiccata a casa sua con una sciarpa. Lo scrive il The Times of India nell’edizione del 5 gennaio, affermando che una possibile ragione sarebbe la decisione della famiglia di farle abbandonare l’attività artistica per intensificare gli studi. Il papà della piccola star ha raccontato che “Neha era diventata molto famosa dopo le sue esibizioni in tre show televisivi”. “Un anno fa però – ha aggiunto l’uomo – dopo aver constatato che questo aveva danneggiato il suo rendimento scolastico, le abbiamo detto basta”. La bambina non ha lasciato alcun messaggio prima di togliersi la vita. Mumbai, sottolinea il giornale, è sotto shock perché in due giorni tre studenti fra gli undici ed i 18 anni si sono tolti la vita impiccandosi. Oltre al caso della piccola Neha, i giornali riferiscono che uno studente di 12 anni, Sshant Patil, è stato trovato morto nel bagno della sua scuola, mentre una adolescente di 18 anni, Bajanjit Kaur, ha utilizzato in casa un ventilatore da soffitto per mettere in atto il suo gesto estremo.
Il 10 settembre scorso si è celebrata la Giornata Mondiale della Prevenzione del Suicidio, un’iniziativa dell’Associazione internazionale per la Prevenzione del Suicidio (IASP) in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. In quella occasione abbiamo letto, con spavento, i dati recenti dell’OMS, secondo cui oggi nel mondo la depressione uccide più dell’Aids ed entro vent’anni sarà la malattia più diffusa del pianeta. Il rapporto OMS sottolinea anche che il maggior numero di persone depresse si concentra nei Paesi in via di Sviluppo che però destinano meno del 2% del proprio bilancio nazionale in politiche di sensibilizzazione e prevenzione della depressione. Questo trend si traduce in circa 800mila suicidi ogni anno concentrati per l’86% proprio nei Paesi più poveri, come le nazioni dell’Europa dell’Est che detengono il primato per il numero di suicidi tra la popolazione di sesso maschile. Ora, scrive l’OMS, se è vero che “il suicidio è una delle tre principali cause di morte tra i giovani con meno di 25 anni e che ogni anno si registra circa un milione di decessi a seguito di suicidi (un pratica un morto ogni due minuti), è altrettanto vero che il suicidio si può evitare”. Il suicidio ha dei precisi fattori di rischio biologici, ambientali, psicologici e culturali e pertanto agire per cambiare questi disagi che sono alla base della decisione di suicidarsi può rivelarsi efficace.
E oltre a ciò, oltre a questi motivi diciamo sociali e culturali, vi sono poi ragioni legate alle singole storie, ai singoli disagi individuali. Come affermano tutti gli psicologi, l’uomo è un essere sociale che ha un costante bisogno degli altri. E, nel caso del suicidio dei giovani, molto spesso esso rappresenta una precisa cartina al tornasole di quanto distratti siani gli adulti, come famiglia, scuola e quant’altro. Ma c’è dell’altro, c’è nella storia di Neha qualcosa di più drammatico e diverso, il segno di una società con valori sono virtuali e mediatici, che non crede nello studio e nella preparazione, ma solo nelle scorciatoie del successo.
Questi ragazzi sembrano più che mai i figli di quel Jim Morrison che diceva “nei sogni c’è più di quanto possa dare la realtà” , una realtà che vedono non meritocratica, ma capace di avere prospettive allettanti e radioso futuro solo per chi esiste nei media e si afferma sul piccolo, diabolico schermo. Bisognerebbe, con forza, insegnare nuovi valori e mostrare che un fugace successo non è quanto aspettarsi dalla vita, ma come si fa se tutto sembra dimostrare il contrario? Il vero insegnamento da tramandare ai figli, dovrebbero essere quello di non avere paura del futuro e di non bruciare la gioventù, ma non con le parole, bensì con l’esempio. Da Tolkien si può apprendere (leggi il suo “Le lettere di Babbo Natale”, Ed. Rusconi, 1980), cosa davvero portare in dono ai nostri figli. La pia leggenda narra che attorno all’Anno del Signore 280 a Patara, nei pressi di Myra, nell’attuale Turchia, nacque un tale a cui venne messo il nome di Nicola. Pietoso e gentile d’animo, si dice abbia un dì distribuito ai poveri e agl’indigenti tutte le abbondanti ricchezze del patrimonio di famiglia, per poi errare solo soletto per campagne e assistere bisognosi e ammalati. Nicola consacrò la propria esistenza al servizio di Dio , e giovanissimo divenne vescono di Myra.
Quando Nicola morì, nel 343, si diffuse immediatamente un culto popolare che lo voleva partono dei bambini, ispirando il celebre “Santa Claus”, che nelle tradizioni nordiche sceglie i doni con un solo scopo: portare ciò che un bambino può comprendere e sa di aver meritato. Non c’è dubbio: in tutto il mondo (più che mai “villaggio orwelliano”), la Rv è una “cattiva meestra”, che ci fa smettere di essere e pensare ed uniforma comportamenti, desideri ed idee. Già megli anni ’60-70 Pier Paolo Pasoliniaveva già intuito che la Tv provoca una sorta di ”mutazione antropologica” ed induce ad omologazioni che riguardano il modo di vestire, parlare, essere ed avere speranze e desideri non più personali, ma indotti e collettivi. E prima di lui Karl Popper aveva chiamato il piccolo schermo “cattiva maestra televisione”, giungendo alla conclusione che la Tv è un potere incontrollato, capace di immettere nella società ingenti dosi di violenza e desideri di emulazione omologata. La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare.
Risultato: stiamo facendo crescere tanti piccoli individui con violenza latente e frustrazioni assurde se non giunge al successo come descritto sul piccolo schermo. Come ha scritto più di dieci anni fa Piero Bocca (“Comunicazione e mass media”, Ed. Zanichelli, Bologna, 1999), se i direttori dei palinsesti ed i consiglieri delle reti televisive ritengono di poter continuare a trasmettere programmi ad alto tasso di violenza, sesso, affermazione attraverso l’apparenza, ed a basso contenuto pedagogico ed informativo, con la scusa di dare alla gente quello che vuole, si genereranno, sempre più, società violente ed in cerca di ogni mezzo per una rapida affermazione.
Oggi occorre ripetere e battersi per ottenere, una televisione che metta da parte la logica dell’audience e faccia valere i veri principi della democrazia. Infatti in democrazia tutti dovrebbero avere uguali possibilità di sviluppo della propria unicità e diversità, mentre la cattiva televisione sta di fatto provocando uno scadimento collettivo delle coscienze critiche di un’intero pianeta, ormai espresso dal detto “il sonno della ragione genera mostri”.
Carlo Di Stanislao
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