Il calcio è pieno di eventi luttuosi e quello occorso l’8 gennaio alla nazionale di calcio del Togo, crivellata di proiettili con una Coppa d’Africa che decide di andare avanti nonostante il lutto, è solo l’ultimo episodio di una lunga scia di sangue, con eroi per antonomasia quei calciatori che giocarono la “partita della morte”, il 9 agosto 1942, allo stadio Zenith di Kiev, atleti professionisti di Dinamo e Lokomotiv, contro ufficiali nazisti, con fucili puntati e una sola via di scampo: la sconfitta e loro a decidere per la vittoria e a perdere la vita in nove. L’attentato alla nazionale del Togo è qualcosa di molto diverso e che di eroico non ha proprio nulla. Costato la vita a due giocatori, ha scioccato, per alcune ore l’Africa ed il mondo, per poi passare in secondo piano e lasciare il posto a Mourinho costretto a fare a meno di Eto’o, a Ancelotti privato di Drogba, e al Napoli, sulle tracce del nuovo Maradona delle Piramidi, al secolo Mahmoud Shikabala. Nonostante la strage ed i caduti, infatti, la Coppa d’Africa è stata al centro delle cronache calcistiche, che in Italia, con buona pace dei benpensanti, formano larga parte del tessuto connettivo della nostra (debole) identità nazionale. Perché, anche se la cosa può indignarci, oggi il calcio è un elemento geopolitico di primaria importanza, soprattutto per descrivere le traiettorie storiche di due continenti come Europa ed Africa, che, assieme al Sudamerica, rappresentano i maggiori centri di diffusione di questo sport. E allora noi italiani (assieme a tutti i tifosi europei), sublimiamo ogni evento tragico o luttuoso, poiché nel calcio – la cui potenza d’attrazione economica e mediatica supera quella di ogni altra dimensione sportiva su scala globale – le ambizioni continuamente negate di poter contare e “pesare” nella definizione degli scenari del XXI secolo è prioritaria e cancella ogni altra cosa. Un esempio su tutti è illuminante. L’annosa domanda sui confini del nostro continente – che a livello politico continua ad essere un elemento di frammentazione e di debolezza strategica in seno alla UE – a livello calcistico è diventato al contrario il trionfo strategico-economico-mediatico della Champions League, in cui gli opposti si armonizzano e assieme all’Europa “bruxellese” dei 27 stati membri convivono felicemente le principali squadre di club di Turchia, Russia, Israele e chissà, tra qualche anno, le squadre dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, senza che nulla, attentati o violenza, possa farci fermare a riflettere su cosa sia oggi, davvero, il calcio che, certamente, non è più uno sport. Dell’attacco rivendicato dai guerriglieri del Fronte Liberazione della Cabina, che lottano per l’indipendenza dell’enclave nord angolana, fra poco si perderà ogni traccia, tranne attribuire ogni responsabilità al paese ospitante, anello ancora debole di una catena di interessi milionari. Già il 10, due giorni dopo l’attentato, Danny Jordaan, organizzatore dei Mondiali di calcio 2010 in Sudafrica, ha dichiarato che è “di responsabilità del Paese ospitante gestire queste questioni” e, comunque, lo spettacolo deve continuare.
Carlo Di Stanislao
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