Sveglia, si torna alla realtà! A parte le prodezze tecniche (come non rimanere affascinati dalla bella principessa Neytiri? C’è un significato matematico recondito nella metamorfosi digitale?) che pongono una definitiva linea di confine nella storia del cinema, Avatar (Usa, 2009) di James Cameron sembra un kolossal paradossalmente anti-tecnologico, anti-terrestre piuttosto che anti-americano e antimilitare. Nel primo vero capolavoro del nuovo millennio, i conquistatori venuti dalle stelle sul pianeta Pandora (sistema solare di Alfa Centauri, distante 4 anni-luce dalla Terra, raggiunto in appena 6 anni di volo interstellare grazie a un’astronave chilometrica non si sa bene alimentata da quale reattore) vengono dipinti come i “cattivi” che invadono i territori altrui per biechi (ma non futili) motivi commerciali. Precisamente minerari. Una multinazionale interstellare capace di indirizzare politiche spaziali affidate dai governi di una Terra morente (senza più alberi!) ai privati con annesse truppe di scorta ed occupazione. Molto verosimile. Ferma restando l’unica motivazione decisiva che potrebbe spingere l’Umanità alla conquista dei pianeti abitabili delle galassie nei prossimi secoli, ossia la salvezza della biosfera Terra grazie a politiche commerciali ed estrattive nello spazio, in Avatar qualcosa non funziona. Qui la resistenza eco-terrorista, troppo scontata, non c’entra affatto. Salvare il più grande albero-casa di Pandora dal più assurdo e colossale bombardamento che si ricordi nella storia della fantascienza, con missili infernali sparati da avveniristici elicotteri e shuttle stratosferici, dovrebbe essere un imperativo categorico per ogni soldato e mercenario che si rispetti. In Avatar, la maggior parte degli umani sono avidi, privi di logica e moralmente indifferenti. Non c’è da meravigliarsi se il protagonista si schiera con i nativi, rappresentati come enormi gatti azzurri, figli della natura. Come si fa a premere il grilletto contro queste inermi creature armate di arco e frecce? E’ ovvio. E, poi, le miniere di “unobtanium” devono essere per forza a cielo aperto su un pianeta abitato? Come la mettiamo con le radiazioni provenienti dal colosso gassoso attorno al quale orbita Pandora che pare animato da un debole campo magnetico? Inesattezze scientifiche imperdonabili, se consideriamo le radiazioni presenti sulle lune di Giove apparentemente insostenibili per la vita come oggi la conosciamo. Assistere alla rivalutazione (era ora! In Amazzonia sono stati decimati) della vita degli indios nella foresta incontaminata di una luna auto-cosciente, non basta. In effetti, questi Na’vi somigliano molto agli indios ed ai nativi americani, ma anche ai nativi di qualunque altro paese e nazione di frontiera, come in “Balla coi lupi”. E siccome il mito del buon selvaggio affascina da sempre, sembra scontato da che parte stare. I paesaggi incantati di Pandora salvano l’imperdonabile. Ma la cosa che meno ci convince di questa bella avventura in 3D, è l’archeologia “impossibile” del regista. James Cameron sembra che sia lo stesso Cameron che qualche mese fa disse di aver trovato la tomba di Gesù a Gerusalemme (Israele), nonché il suo cadavere, e di averlo portato a New York. Secondo Cameron, la tomba di famiglia trovata a Gerusalemme pare contenesse le ossa di Cristo, della moglie (Maria) e del figlio (Giuda: “nomen omen”, ossia il destino è già nel nome). Insomma, celebriamo un regista decisamente discutibile. Perché il suo è stato indiscutibilmente un vero auto-goal velato dal successo imminente. Le presunte scoperte di Cameron furono ridicolizzate non solo dagli archeologi cattolici, ma anche da quelli ebrei. Nonostante tutto, è lo stesso Cameron di Avatar, chiamato dalla Nasa per realizzare non si sa bene ancora che cosa. Quei giganti “space shuttle” stratosferici ci lasciano molto da pensare. Detto questo, Avatar (al di là dei due e o tre miliardi di dollari di incasso finale, un record assoluto e sfido chiunque a confessare di un averlo visto almeno due volte, in pellicola e in 3D) che cosa di eticamente e moralmente buono può insegnare ai giovani al di là del puro intrattenimento? Di sicuro, la bontà più alta che Avatar può vantarsi di presentare, non va oltre l’etica del “volemose bene” e, forse, della tolleranza verso i “diversi”. L’ex soldato in carrozzella che vola nello spazio (siccome l’atmosfera del pianeta Pandora è tossica per gli esseri umani, il ragazzo collega la sua coscienza a un nativo creato in un avveniristico laboratorio, la madre di tutti i laboratori bio-medici) lo osiamo pensare come un chiaro omaggio ai reduci vittime della guerra (altro che missioni di pace!) al terrorismo integralista globale del 21° Secolo. Tutto qui? Un po’ poco sia per quel salto di “civiltà” necessario per sviluppare politiche e tecnologie capaci di farci raggiungere le stelle, sia per garantire all’Umanità il futuro sulla Terra, in relazione alle altre culture e civiltà che incontreremo sicuramente là fuori prima o poi, volenti o nolenti. Allora cosa faremo? Cosa diremo? La fantascienza vera, quella buona, aspetta ancora di essere sfornata in 3D. Insomma, dopo Avatar, corriamo il rischio di rimanere per sempre inchiodati sulle poltrone, nella migliore delle ipotesi, inforcando gli ormai classici occhiali 3D polarizzati. Magari, in un futuro ormai prossimo, “partecipando” a una pellicola grazie a un avatar appositamente creato per noi su misura, che ci permetterà di vivere in tempo reale questo genere di avventure. Ma avrà pur qualcosa di buono questo Avatar di Cameron. Certo. Per la prima volta (neppure in Star Trek, sembra vero) pare che la scienza e la tecnologia vengano debitamente e chiaramente distinte nei loro metodi e finalità, annullando per sempre (si spera) la concezione marxista che le voleva sinonimi perfetti in nome di non si da bene che cosa. Nella comunista Cina Avatar sbanca i botteghini. Eppure il potere demiurgico di creare da zero un pianeta, i suoi abitanti, la sua flora e la sua fauna, comporta degli alti rischi per l’umanità. La realtà vera potrebbe sfuggirci di mano. Se il lavoro tecnologico implicato da Avatar è sbalorditivo (per creare il mondo di Pandora e le tecnologie usate dagli uomini si è investito moltissimo in pensiero e immaginazione) “performance capture” degli attori e 3D corrono il rischio di affossare lo spirito che ci ha portati sulla Luna nel 1969. In fondo, siamo cattivi: meglio nascondere le fattezze umane in altre sembianze magari più feline che umane; meglio rimanere sulla Terra per non contaminare altri mondi magari più civilizzati del nostro; meglio attendere un salto di civiltà o un incontro speciale; meglio inviare una sonda automatica. In effetti Pandora (ma anche il pianeta Solaris con i suoi magici neutrini “copia e incolla”) nasconde (e lo vedremo presto nei vari sequel) un segreto ancor più grande per il destino della Terra. L’idea niente affatto originale di un essere umano connesso a una creatura di un pianeta alieno, è già stata usata in storie di fantascienza: da Paul Anderson in Call me Joe (1957) ma anche da Ben Bova nel romanzo The Winds of Altair (1973). Sia il racconto di Anderson sia il romanzo di Bova hanno al centro un essere umano che, a bordo di una nave spaziale, orbita attorno ad un pianeta alieno mentre è collegato elettronicamente a una creatura che vive sul pianeta stesso. Nel racconto di Anderson la creatura era stata creata dagli scienziati in orbita e poi mandata sul pianeta per aiutare gli umani a esplorarlo. In The Winds of Altair, la creatura è nativa del pianeta e le è stato impiantato un ricevitore elettronico che permette all’uomo a bordo della nave spaziale di controllarla. In Avatar (la scena finale è un chiaro omaggio a “L’invasione degli ultracorpi”) l’uomo in carne ed ossa muore, subisce una metamorfosi (definitiva?) mentre la sua coscienza viene salvata e trasmessa nella creatura Na’vi grazie a luminose connessioni (links) filamentose create e volute da Pandora più che da Neytiri. Il mito dell’immortalità che ritorna. L’attuale ricerca nella biologia, nella protesica e nell’informatica renderà possibile riparare i danni causati al nostro corpo da malattie o incidenti. Saremo senza dubbio in grado di creare arti e corpi umani più forti, forse per dei veri superman che poi voleranno nello spazio. Ma saremo ancora uomini? Ecco allora la più “erudita” delle contraddizioni in Avatar, messa in luce a chiare lettere dallo scrittore statunitense Bova (www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=61360). “A mio parere Avatar rappresenta quel tipo di miopia moralistica che a Hollywood passa per erudizione. Invece di tentare di capire come gli uomini dovrebbero comportarsi nella realtà, il film ricade nell’atteggiamento abituale a Hollywood di considerare l’uomo e la sua tecnologia come intrinsecamente cattivi, mentre i nativi sono intrinsecamente buoni, non essendo tecnologici. Questo atteggiamento è ostentato da gente che usa la tecnologia più recente e più sofisticata possibile per fare il suo film. Qui c’è una sorta di sconnessione mentale!”. In Avatar siamo davvero di fronte a una scrittura solida che sa reggere l’apparato visivo della pellicola? Chi fa film di fantascienza di questo genere ha davvero molto interesse per lo spazio cosmico? Comprende l’importanza che lo spazio riveste per il nostro futuro, per il destino della Terra e della nostra civiltà? Il cinema può cercare di capire le possibilità infinite dello sconfinato e stellato Universo: in Avatar è solo ancora una lontana speranza.
Nicola Facciolini
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