Il dettato della Costituzione italiana impone al governo di fare scelte strategiche, finanziare gli studi, sostenere chi ha deciso di passare buona parte della sua vita in laboratorio o comunque laddove si sperimenta il futuro della scienza. Eppure in tutte le statistiche l’Italia arranca: gli investimenti, pubblici e privati, dedicati alla ricerca sono un misero 1,1% del Pil, contro una media europea dell’1,8%. Da tempo gli Stati membri dell’Unione si sono posti l’obbiettivo di arrivare al 3% entro il 2010 e, in piena crisi, la Svezia ha deciso di raggiungere il 4%. Le Tigri asiatiche volano per conquistare nuovi primati in brevetti&Co. E gli Usa restano un miraggio: solo in biomedicina, oltre il 60% dei fondi parte da lì. Il grido di dolore che si alza dai laboratori nostrani è univoco, forte e poco ascoltato. In un mondo sempre più competitivo, l’Italia s’è fermata. Uno degli andanti di questi ultimi tempi è quello della fuga dei cervelli all’estero. Spesso, le cronache e i rari approfondimenti degli organi di informazione, segnalano il successo di un qualche nostro connazionale oltre oceano, così come talvolta, con mal celato vanto, si enfatizza l’apporto dato dai nostri compatrioti a qualche scoperta di rilievo internazionale.
Il messaggio sottinteso che trapela è però quello dell’inadeguatezza del mondo accademico, che lascia andare via le nostre menti migliori, e frustra le aspirazioni di chi invece, stoicamente, decide di restare in madre patria. Fare il punto sulla situazione attuale e sulle prospettive future dei giovani ricercatori italiani. Questo l’obiettivo della lettura inaugurale dell’edizione 2009-2010 dei seminari biologici, promossi dall’Istituto di patologia generale dell’università Cattolica di Roma, diretto da Tommaso Galeotti, e dal Centro ricerche oncologiche Giovanni XIII dell’ateneo, diretto da Achille Cittadini. La conferenza si è aperta oggi, 26 gennaio, al policlinico universitario Gemelli di Roma. Fra i partecipanti Salvatore Maria Aloj, docente del dipartimento di biologia e patologia cellulare e molecolare ‘L. Califano’ dell’università degli studi di Napoli Federico II, che ha dichiarato: “In Italia il numero dei ricercatori è tra i più bassi dei Paesi occidentali – anticipa Aloj – perché ad esempio in Finlandia, su ogni 1000 lavoratori, 13,77 sono ricercatori, in Svezia i ricercatori sono 10 su 1000 e in Germania sono 8 su 1000. In Italia i ricercatori sono circa 3 ogni 1000 lavoratori. Ed è un primato che non può certo rallegrare. Ciò non meraviglia tenendo conto che l’Italia investe poco in ricerca e sviluppo. Tuttavia, la produttività è tra le più alte del mondo e la qualità della produzione scientifica italiana è tra le più alte”. “I seminari biologici – ha spiegato Francesco Ria, docente di patologia generale all’università Cattolica di Roma e coordinatore scientifico dei seminari biologici – sono indirizzati anche agli studenti del corso di laurea in medicina e chirurgia, in particolare a quelli nell’anno di passaggio dallo studio delle materie biologiche di base a quelle cliniche. Questi incontri mirano a sollecitare l’interesse degli studenti ai meccanismi biologici, che sottostanno alle patologie e alle terapie, che costituiranno l’oggetto degli studi successivi”. Claudio Gatti, fisico delle particelle all’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati, torna indietro nel tempo: “In Italia negli anni Settanta non si riteneva strategico il televisore a colori, così fummo invasi da apparecchi tedeschi perché i nostri non erano pronti. Ora potremmo puntare su nanotecnologie o energie rinnovabili. È quello che dice Obama in Usa: per uscire dalla crisi, bisogna investire su settori strategici che in futuro saranno molto importanti”. In assenza di un nuovo approccio alla ricerca, avverte Gatti, “la mensa del Cern a Ginevra è piena di italiani, ma con contratti stranieri”. Un “data base” per identificare i ricercatori italiani che lavorano all’estero nel campo della biomedicina con il fine di intraprendere percorsi di collaborazione con le strutture italiane affrontando, così, il problema della fuga dei cervelli : è quanto ha annunciato il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, nel corso di un convegno tenutosi il 19 scorso a Bologna ed inerente la ricerca in sanita’. Il data base, ha spiegato ancora il ministro, sarà importante per creare percorsi di collaborazione tra i ricercatori che operano in Italia e quelli che lavorano fuori attraverso la possibilità di formare giovani studiosi in laboratori esteri e viceversa. Per Fazio, infine, è necessario “mettere al corrente i giovani ricercatori che lavorano all’estero di quello che accade in Italia” prevedendo anche alcune risorse per incentivare gli scambi con il nostro Paese. Un altro problema, fra i tanti, riguarda il nostro mondo accademico, che è inadeguato a coltivare e crescere le menti migliori che operano nella Ricerca ed incline a nepotismo e clientelismo che aggravano lo stato depauperato creato dall’esiguità dei fondi stanziati. Inoltre, nelle nostre Università si studia, ci si laurea, si prosegue con il dottorato. Nessuno però insegna cosa vuol dire fare ricerca; stare in mezzo a provette e reagenti, inviare grant application per rispondere ai bandi, redigere rendicontazioni scientifiche, cioè spiegare in modo chiaro e sempre in inglese i risultati del proprio lavoro, pubblicare su riviste specializzate, inserirsi in network internazionali. Occorre, poi, anche chiarire che il ricercatore deve avere alcune specifiche qualità. Marta Milo, ricercatrice nel campo della bioinformatica e biologia computazionale presso la facoltà di medicina dell’università di Sheffield in Inghilterra, in una intervista del 13 scorso, afferma che la ricerca è sì un lavoro, ma principalmente è una passione, quasi una necessità per potersi realizzare come persona. Così come diceva Primo Levi, è una maniera di esercitare la propria libertà, contribuendo alla crescita globale della conoscenza, con la competenza nel proprio lavoro, ma senza mai perdere il piacere di svolgerlo. Il ricercatore è “il precario” per eccellenza, un po’ per scelta, un po’ per necessità, un po’ per costrizione. Ha ragione la giovane emigrata a Londra ma va detto che la precarietà che, per motivi accademici ed economici, si respira in Italia, pare davvero troppa.
Di Carlo e Eugenio Di Stanislao
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