La realtà comincia e finisce in “Avatar”? Lavorare contemporaneamente sul mondo reale e su quello virtuale, è possibile? Se in Cina una montagna è stata rinominata in onore di “Avatar” (Usa, 2009), il film di fantascienza scritto, diretto e prodotto da James Cameron che dopo aver affondato il suo “Titanic” punta decisamente in alto, ben oltre i due miliardi di dollari, ben oltre i Golden Globes, allora qualcosa di particolarmente significativo sta accadendo nel mondo. Il “Southern Sky Column” a Zhangjiajie, nella provincia cinese dello Hunan, sarà ora noto come “Avatar Hallelujah Mountain”. Sul pianeta Pandora si chiamano proprio Hallelujah Mountains e sono sospese nella zona di “equilibrio gravitazionale” tra il gigante Polifemo e la luna abitata di Pandora, tra la vegetazione rigogliosa e bioluminescente, le cascate scintillanti, gli animali strani (ed assurdi) che le popolano, sfrecciandole attorno magari cavalcate dai nativi Na’vi. Il mondo “reale” della Terra ha ispirato Cameron: non solo, dunque, la cattiveria umana ma soprattutto la geografia. Si tratta della Southern Sky Column, una delle torri di roccia alte 1000 metri che popolano il parco della foresta nazionale di Zhangjiajie, nella provincia cinese dello Hunan. Nell’ideare la scenografia di Avatar, il regista James Cameron si è affidato ai suggerimenti di un fotografo che ha passato buona parte del 2008 a fare scatti a Zhangjiajie. Il governo e i responsabili del parco ora vogliono “cavalcare” l’onda gigante del successo stratosferico di Avatar per promuovere il turismo naturale in Cina. “Se non potete recarvi personalmente su Pandora, potete sempre fare un giro nella nostra spettacolare foresta” – recita lo slogan pubblicitario cinese. Come già detto nel precedente contributo, anche alla luce delle ultime decisioni politiche del presidente degli Stati Uniti che pare voglia ridimensionare l’impegno della Nasa nello spazio cosmico (magari per stimolare le imprese private a fare meglio!), corriamo il rischio che la realtà ci sfugga davvero di mano. Intanto il messaggio antropologico ed ecologista del film sta già facendo parlare di sé in tutto il mondo. “I Nàvi di Avatar piangono perché la loro foresta viene distrutta. E’ esattamente quello che accade anche a noi e a molti altri popoli indigeni” – così un Penan del Sarawak (regione malese del Borneo) ha espresso il concetto a “Survival International”, l’organizzazione che aiuta i popoli indigeni di tutto il pianeta Terra. E se ci convincono assai poco le possibilità espressive della pellicola (meglio il 3D con gli occhialini di Neytiri), almeno la speranza educativa di una rinascita della sensibilità e della coscienza verso i Nativi in tutto il mondo, magari proprio grazie a quella tecnologia paradossalmente criticata in Avatar, dobbiamo concederla. Libri, tecnologia, videogiochi, proiezioni speciali in 3D tutto l’anno, pupazzi e dispositivi portatili virtuali di Avatar, hanno messo in moto una rivoluzione commerciale e sociologica inarrestabile, per certi versi preoccupante. Il mago degli effetti speciali di Avatar, Joe Letteri (di nonni italiani), dal 2007 Direttore della Weta Digital (“Il Signore degli Anelli”, di Peter Jackson), uno dei maggiori responsabili dello straordinario risultato ottenuto dal film di James Cameron e delle meraviglie della sua Pandora, spiega che l’avvento delle tecnologie digitali nell’intrattenimento cinematografico, ha già cambiato la percezione del mondo “reale”. In attesa della valanga di Premi Oscar, grazie ad Avatar, la tecnologia stereoscopica (magari senza occhialini) potrebbe rivoluzionare anche la scienza e la filosofia. Dare vita a mondi e linguaggi fino a pochi mesi fa inimmaginabili, non può non avere effetti sulla vita dell’uomo e sulla sua percezione del “reale” e del “non reale”. Dunque, nulla sarà più come prima, ferme restando le nostre critiche sia alle concezioni del regista, relativamente alla sua “archeologia dell’impossibile”, sia al “credo” di alcuni attori di Hollywood (anche in Avatar) che hanno aderito alla setta Scientology. Ma ecco i “miracoli” di Avatar.
“Abbiamo dovuto fare in modo che il regista potesse lavorare contemporaneamente sul mondo reale e su quello virtuale, trattando però quest’ultimo come se fosse reale anch’esso” – spiega Joe Letteri ai giornalisti nella sua conferenza stampa al “Bologna Future Film Festival 2010”.
“Questo è stato possibile grazie all’uso di una particolare macchina da presa, una “virtual camera”, che permetteva di vedere gli attori in carne e ossa e gli elementi in computer grafica in contemporanea. Il campo è più che mai aperto a tantissime alternative, non si può dire a priori quale sarà l’evoluzione di questa tecnologia, molto dipenderà dalle intenzioni del regista”. Usare la stereoscopia in maniera realistica, a differenza di quanto fatto in precedenza, in cui le scene 3d venivano aggiunte al girato in una fase successiva, è il cuore della rivoluzione digitale voluta da Cameron. E già disponibile per uso domestico, come videogioco. “Molti produttori stanno già lavorando ad alcuni modelli di televisore con stereoscopia, ma io credo che il vero godimento dell’esperienza in 3d si abbia sul grande schermo, in cui è il mondo che viene verso di te, e non sei tu a dover entrare dentro di esso. Tanti registi stanno già prendendo in considerazione questa tecnologia, spinti dal desiderio di aumentare l’esperienza visiva offerta dalla propria pellicola”.
La tecnologia del “motion capture” vista in Avatar, potrà sostituire del tutto gli attori reali, magari essere utilizzata per far rivivere artisti ormai scomparsi. “In verità è già stato utilizzato a questo scopo, anche in Avatar molti degli attori non erano in carne e ossa: ad esempio molti dei soldati nella battaglia finale, o i protagonisti di alcune scene stunt. Sarà anche possibile far rivivere attori scomparsi, ma questa è una problematica legata a diversi pro e contro, sarà il regista a doversi chiedere se sia una scelta giusta”. Nella Weta lavorano anche molti italiani, tra cui figli di famosi registi. “A questo film hanno lavorato più di mille persone, esperti delle più svariate discipline, ma sempre di grande talento, che hanno contribuito tutti insieme con le proprie idee. Ovviamente guidati da Cameron, che ha sì delle idee molto precise ma è sempre stato aperto e collaborativo. Siamo tutti artigiani e scienziati insieme”. In Avatar è stato inventato un mondo “quasi” vero, anche se non proprio come il nostro: mancano i “difetti” naturali della Terra. Queste tecnologie potranno simulare qualsiasi cosa, ad esempio uno sbarco su Marte, ma con evidenti limiti etici. “La possibilità c’è, ma non riesco a pensare che un governo possa decidere di spendere una fortuna su un’idea come questa!”. E’ più che evidente lo stupefacente lavoro svolto dal comparto degli effetti speciali per rendere possibile il visionario universo immaginato da Cameron. “La volontà del regista era quella di eliminare il confine tra reale e virtuale, e cuore di questo processo è stato il “performance capture”, coadiuvato dall’uso della virtual camera. Per catturare al meglio la mimica facciale degli attori e ogni emozione che i protagonisti dovevano fare trasparire – spiega Letteri – è stato utilizzato una sorta di “casco” incaricato di registrare ogni più piccolo movimento del volto degli interpreti, in modo da poterlo successivamente ricreare sull’avatar corrispondente”. Attraverso alcuni esaustivi filmati, Letteri ha guidato i giornalisti all’interno delle fasi di elaborazione della scena: dapprima gli attori in carne e ossa, equipaggiati di casco e tuta per il motion capture, vengono filmati all’interno di uno scenario che rappresenta grossolanamente l’ambiente scenico, in modo che lo sfondo possa essere preso a riferimento per la successiva elaborazione in computer grafica. Nel caso, ad esempio, di una scena girata nella giungla, Zoe Saldana e Sam Worthington interagiscono con un numero di piante che, seppur limitato, è funzionale alla determinazione dell’ambiente. Per comprendere i mezzi tecnici a disposizione di Cameron, i giornalisti hanno potuto visionare le immagini elaborate in tempo reale dalla virtual camera: il regista si trova in questo caso ad avere a che fare già con un’immagine computerizzata, sebbene di risoluzione nettamente inferiore al risultato finale, ma che permette, ciak dopo ciak, di avere un significativo assaggio della resa a schermo della scena. “Una volta che la performance è stata approvata dal regista, la mano passa poi al reparto effetti speciali, che aumenta il livello di dettaglio dei personaggi per poi affiancarli al girato delle loro controparti reali, al fine di verificare l’accuratezza dei movimenti facciali degli avatar”. Tutti noi possiamo divertirci a creare con questo software la nostra immagine virtuale di Na’vi. Se il procedimento può sembrare laborioso, è ancora più difficile immaginare lo sforzo impiegato per realizzare il complesso scenario di Pandora. In primis la giungla davvero irreale: molte delle piante sono state disegnate dallo stesso Cameron, fase a cui ha fatto seguito un’effettiva osservazione della realtà come modello di riferimento. “A Cameron abbiamo proposto di volta in volta diverse alternative – fa notare Letteri – e la sua risposta era sempre: voglio tutto! Questo può dare un’idea della varietà di un mondo in cui in ogni inquadratura facevano bella mostra di sé migliaia di piante, molte delle quali animate da una bioluminescenza che Cameron ha voluto a tutti i costi inserire, impressionato dalla propria caccia al tesoro sottomarina”. Certo, mancano le foglie umidicce delle nostre foreste terrestri, ma che volete farci? Doveva essere tutto perfetto, ossia irreale. Non meno avventuroso è stato trovare un riferimento reale alle montagne volanti Halleluja. Per quanto riguarda i veicoli, anch’essi hanno in alcuni casi avuto bisogno di una controparte reale: il Samson utilizzato come velivolo è stato ad esempio parzialmente ricostruito, nonostante nella maggior parte dei casi i filmati del modello fisico hanno dovuto subire un’integrazione digitale, specie per quanto riguarda l’illuminazione. Un altro obiettivo tecnico che Letteri confessa essersi posto con particolare entusiasmo è stato quello di ricreare un’acqua il più realistica possibile: a differenza, infatti, delle precedenti pellicole, in cui si riprendeva semplicemente “vera acqua”, qui non è stato possibile lavorare in questo modo in virtù dell’impiego della tecnologia stereoscopica. Una particolare attenzione è stata riposta nel comportamento dei vestiti bagnati e nella velocità dello scorrimento del volume d’acqua. “La mole di dati da interpolare era impressionante: per animare una scena di pochi secondi, in cui alte onde si infrangono con una scogliera, è stata necessaria una settimana di rendering”. Il mondo di Avatar è fatto non solo di uomini e Na’vi, ma anche di altre creature: per le “banshee”, i rettili volanti del popolo azzurro, sono stati necessari veri e propri studi comportamentali per comprendere in che modo avrebbero dovuto interfacciarsi con i loro “navigatori”, e per i quali Cameron ha voluto fossero utilizzati colori vivaci, normalmente appannaggio di rettili di dimensioni di gran lunga inferiori. Un altro punto critico per i tecnici degli effetti speciali è stata l’illuminazione: tradizionalmente, infatti, è sempre stato impossibile ripetere digitalmente il comportamento della luce nel mondo reale. Letteri spiega di aver bypassato il problema grazie all’uso delle “spherical harmonics”, grazie alle quali la direzione e l’intensità della luce è decodificata in ogni punto, così come la sua interazione con l’ambiente. A dimostrazione di quanto questo aspetto sia stato curato, Letteri ha mostrato in dettaglio la riflessione di un raggio di luce cangiante sul viso e sulla pupilla di Neytiri: un’esperienza praticamente indistinguibile da quella reale. A rendere possibile la storia di Jake Sully su Pandora è la corrispondenza fisica tra il proprio sistema nervoso e quello del proprio Avatar: allo stesso modo, a rendere estremamente realistica l’apparenza dei Na’vi è l’aver ricreato il comportamento dei muscoli umani, e di conseguenza la loro interazione con ossa, grasso e pelle. Un risultato possibile grazie alla ricostruzione completa del sistema muscolare Na’vi: e se ai più attenti questo non sembra impressionante, in quanto la Weta aveva già dichiarato all’epoca de “Il signore degli anelli” di aver ricostruito i muscoli di uruk’hai e compagni, Letteri svela invece che in quel caso vennero ricreati sono i movimenti muscolari, e non la struttura in sé. In tema di confessioni, Letteri fa una concessione alla superiorità dell’uomo rispetto alla macchina: molto spesso, confessa, i semplici dati della motion capture non sono sufficienti per raggiungere il grado di realismo desiderato, e in quel caso la gestione del movimento deve tornare nelle mani di un animatore in carne e ossa. Nonostante Joe Letteri sia il sovrano incontrastato della computer grafica, quindi, è ben lungi dallo sminuire l’apporto umano all’esperienza cinematografica: a chi gli chiede se i suoi esseri perfetti prenderanno mai il posto degli uomini in carne e ossa, risponde semplicemente che “gli uomini non sono perfetti, e quindi nemmeno i Na’vi lo sono: ho cercato di ricreare quella magnifica imperfezione. Senza gli attori non sarebbe mai stato possibile ottenere un simile risultato”. Insomma, è grazie al talento della bellissima Zoe Saldana se il personaggio di Neytiri subisce un’evoluzione durante la pellicola. “Per quanto teoricamente sia possibile, non mi sognerei mai di falsare l’interpretazione di un attore attribuendo alla sua controparte digitale espressioni e atteggiamenti non originali”. Ma non è difficile immaginare un universo cinematografico completamente in digitale: se persino colui che ha azzerato le differenze tra reale e virtuale non offre speranza e credito a questa inquietante prospettiva, perché finora tutto sommato quella di Avatar è forse la strada più equilibrata e utile da percorrere, è anche vero che tutto resta nelle mani del regista. Dunque, la strada del 3D è effettivamente quella giusta? Lucida è l’analisi del regista ultra-novantenne Mario Monicelli:“Quella roba è uscita 25 o 30 anni fa, non ebbe seguito, fu un fallimento: vado poco al cinema, alla mia età faccio fatica uscire la notte. Ma ricordo che già 25 anni fa ci dettero degli occhialini e fu un fallimento. Non so se questa volta tecnicamente è una cosa meno fastidiosa di allora. Le tecnologie sono sempre vecchie: il film non acquista qualità con la tecnologia, soltanto è più facile farli”. Allora, è vero che i grandi passi compiuti dalla tecnologia migliorano la fruizione e il modo di fare cinema? Oppure, come afferma Monicelli, la tecnologia è qualcosa di passeggero, inutile a migliorare la qualità della pellicola? La semplicità paga, è vero. Ma se sanno tutti che gli incassi mondiali di Avatar si debbono alla doppia o tripla visione, in pellicola e in 3D, e non al numero effettivo dei biglietti staccati per la visione unica e originale, perché lasciare una tale furbizia solo a James Cameron. Cosa aspettano i registi cattolici Italiani a fare altrettanto? Magari con un kolossal che celebri degnamente i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Nicola Facciolini
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