Fine settimana tragico nella Milano più multietnica e difficile, quella di Via Padova, dopo l’omicidio di un giovane egiziano, accoltellato nel corso di una rissa da alcuni sudamericani. Secondo la ricostruzione della questura, l’episodio che ha dato vita alla rivolta è avvenuto alle 17.40 del 13 febbraio, con un gruppo di latinos e tre amici, due egiziani e un ivoriano, che si trovavano tutti sullo stesso autobus in via Padova, che hanno cominciato a sfottersi e minacciarsi. Appena i tre nordafricani sono scesi dal mezzo il gruppo di sudamericani li ha seguiti e raggiunti accoltellando uno di loro, Hamed Mamoud El Fayed Adou di 19 anni, che è morto sul posto, nonostante i tentativi dei soccorritori di rianimarlo. Ferito uno dei suoi due amici, L.K. ivoriano di 21 anni, ma per fortuna solo lievemente ad un braccio. Il terzo, cugino della vittima, è riuscito invece a scappare ed è illeso. A questo punto il finimondo, con gruppi di nordafricaniche hanno spaccato auto e danneggiato negozi prevalentemente gestiti da sudamericani e, senza più controllo, hanno aggredito anche alcune persone, in particolare di etnia latino-americana. Analizzando lo scoppio di rabbia e violenza il Ministro Maroni, sabato sera, ha dichiarato: “non vedo il rischio banlieue in via Padova” ed aggiunto, all’unisono con la Moratti, che in futuro si dovranno evitare le concentrazioni etniche in un solo quartiere e definire le condizioni per cui un extracomunitario regolare possa integrarsi davvero. E al segretario del partito democratico Pier Luigi Bersani, che ha accusato il centrodestra di aver fallito nella politica sull’immigrazione, ha replicato secco: “Sarebbe facile rispondere che nel 2008 gli sbarchi a Lampedusa erano 7mila e nel 2009 li abbiamo ridotti a 3mila. Ma vorrei evitare il rimpallo delle colpe. Una classe politica – conclude – non deve usare miseramente questi temi per una campagna elettorale”. Ma, di là dalla polemica politica, fatta solo per rimpallarsi responsabilità e non alienarsi consensi, il problema integrazione ed identità resta in molte città del nostro Paese. Sempre lo scorso week-end, analoghe risse a Anagni (nel Frosinate), Pisa e Biella. Si è trattato di risse meno gravi di quella di via Padova ma pur sempre inquietanti: a Pisa in pieno centro, tra la movida del sabato sera; ad Anagni dove è stato quasi distrutto un autogrill e a Biella con un marocchino finito in ospedale in gravi condizioni. In verità, il problema degli extracomunitari e dei “quartieri polveriera”, come scrive oggi Il Corriere, non è solo italiano, ma riguarda tutta l’Europa, con i suoi 8 milioni di extracomunitari immigrati. Una guerra, quella del rispetto dell’identità e della integrazione, sin’ora persa, in cui il prezzo più alto lo pagano le città: laboratori sociali dove si compie (e spesso fallisce) l’esperimento. C’è la Svezia—12% di immigrati sulla popolazione totale, secondo i dati Onu ed Eurostat — che ha accolto in media il 76% delle richieste di asilo da parte di immigrati iracheni e ora però sta cercando di “reindirizzarne” almeno 10 mila verso altri Paesi Ue. E c’è la Grecia (percentuale di immigrati: 8,8%) che di iracheni non ne ha accolto quasi nessuno. C’è la Germania (12,3%), che ufficialmente non permette le espulsioni ma poi pratica le estradizioni, dopo regolare condanna, e a volte anche per reati minori. C’è la Francia (10,1%), che non parla di “espulsioni” ma di “partenze umanitarie”: termine che si riassume in un’iniziale “protezione sul posto”, per l’immigrato non in regola, e poi nel suo accompagnamento verso un “paese d’origine sicuro”, ammesso che ne esista uno. Sembra che funzioni. Ma le città della Francia, proprio loro, non sono modelli di integrazione: come hanno insegnato a suo tempo le fiamme della banlieue, divampate fin dietro Pigalle. E c’è poi l’Olanda (10%), che a molti neo-immigrati non solo chiede di seguire un corso di lingua, ma anche di dare un’occhiata a un film dove, fra l’altro, si assiste a un bacio fra omosessuali e si vede la panoramica di una spiaggia per nudisti. Insomma, c’è oggi il senso di un’urgenza, anzi di un’emergenza conclamata e forse la vera diagnosi l’ha azzeccata, oltre Atlantico, il Los Angeles Times: “Gli Stati Uniti—ha scritto—hanno lottato con la questione dell’immigrazione fin dalla loro nascita, così è facile dimenticare che questi sono temi relativamente nuovi per gli Stati europei, rimasti omogenei per secoli”. E questa differenza si è vista e ci è stata ricordata quando centinaia di lavoratori africani sono scesi in rivolta in Calabria, poche settimane fa. Il problema non è solo economico e non solo integrativo. Ad esempio ci si dimentica che sarebbe importante far passare, nell’opinione pubblica, il concetto corretto di identità e di rispetto per la stessa. Credo che, quando si parla di “identità”, se si vuol far un discorso corretto si debba cominciare a circoscriverne i caratteri. L’identità è la coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma della quale bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza – : pertanto della propria specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità, appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità.
Il che significa che l’identità è per sua natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità assoluta, metafisica e metastorica, “globale”: ciascuna identità si misura su concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici). Gli italiani, al pari di tutti gli “occidentali”, hanno curato specie negli ultimi due-tre secoli la crescita della propria identità individuale, per quanto altri valori – nazionali appunto, e in genere comunitari, nonché religiosi – si ponessero rispetto a essa in controtendenza. Abbiamo quindi perduto la consapevolezza delle nostre tradizioni: e, d’altronde, anche della loro complessità. L’abbiamo perduta o, per meglio dire, l’abbiamo consapevolmente rimossa da noi: tra il primo-secondo e il settimo-ottavo decennio del nostro secolo gran parte della società italiana, da “destra” come da “sinistra”, ha fatto a gara nel respingere, rifiutare, deridere e dimenticare usanze e consuetudini ch’erano in realtà l’involucro esteriore di valori profondi. Come ha sostenuto Antonio Gramsci, l’unica autentica tradizione identitaria del popolo italiano nel suo complesso era quella legata ai riti, ai ritmi, ai valori etici della Chiesa cattolica: ma proprio contro di essi, giudicati in blocco nemici della libertà e del progresso, si è costruito gran parte del processo di unità nazionale noto col nome di “Risorgimento”. L’obliterazione è stata profonda e, allo stato presente delle cose, irreversibile: e si è tradotta perfino nella considerazione e nel sentimento del tempo, cioè in valori calendariali. Dovremmo cominciare a esporre con chiarezza ai giovani d’oggi il quadro del nostro fallimento e dei rischi che essi corrono di conseguenza. Mostriamo loro come l’unico testimone che noi diamo l’impressione di aver loro passato, il Nulla, non può essere appunto un testimone: e che come tale va respinto. Recuperiamo il valore dell’individuo e della differenza rispettando ogni differenza come valore e impariamo che buono e cattivo non dipende dal credo o dal colore della pelle, ma delle scelte che ognuno opera e dalla società in cui vive. Confesso, in buona e vasta compagnia, ormai, di non riuscir ad amare granché l’Italia d’oggi. Sento, come si espresse uno scrittore francese di qualche decennio fa, che mon pays me fait mal. Ma, se ce la facessimo a vincere questa battaglia contro l’intolleranza culturale e contro la povertà che lotta contro se stessa, avrei la forza di ricredermi e anch’io potrei dire con Ezra Pound: “Credo nell’Italia, e nella sua impossibile rinascita”.
Carlo Di Stanislao
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