Barack Obama aveva detto, pochi giorni fa, in un discorso davanti a senatori e deputati di non essere il primo presidente a doversi occupare della riforma sanitaria, ma di volere essere sicuramente l’ultimo. The Final Push, la Spinta Finale, a quel provvedimento che dovrebbe dare senso alla sua Presidenza (almeno sul fronte interno), è arrivata quando Obama si è presentato di fronte alle telecamere per annunciare il Suo piano di riforma sanitaria. Dopo aver delegato per oltre un anno la questione al Congresso, (per evitare fastidiosi incidenti di percorso ed esporre troppo la Casa Bianca), in vista del rush finale (ma anche di fronte all’empasse di Capitol Hill), il presidente ha snocciolato, il 22 scorso, i punti della sua proposta, che appare in sintonia con quella più moderata approvata al Senato. Sparisce la Public Option, che tanto aveva fatto discutere, (e che era stato cavallo di battaglia dei liberals alla Camera dei Rappresentanti) anche se rimane una forma di controllo statale (con un tetto) sulle tariffe chele compagnie d’assicurazione intendono offrire ai loro assistiti. Il testo d’Obama – che riguarderebbe 31 milioni d’americani attualmente senza copertura sanitaria – costerebbe 1000 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, prevedrebbe una tassa sui ricchi, la Cadillac Tax, come è stata ribattezzata, ma solo dal 2018, e offrirebbe ai repubblicani una nuova serie di strumenti per combattere gli sprechi nel settore del Medicare, il programma d’assistenza pubblica degli anziani.
I repubblicani hanno subito stroncato la sua proposta, certamente divulgata per metterli in difficoltà alla vigilia del summit televisivo del 25 febbraio, già annunciato dal Presidente ed è probabile, scrive Panorama oggi, che un loro parere definitivo” arrivi qualche ora prima alla “messinscena” televisiva, rilanciando la palla nel campo democratico. Quanto a questi, Obama ha concesso un’apertura sull’aborto all’ala più progressista del suo partito, decidendo di lasciare fuori dalla riforma l’articolo che avrebbe impedito di utilizzare i fondi federali per coprire i costi di prestazione medica come quello relativo all’interruzione della gravidanza.
Insomma Obama media e cerca equilibri, poiché sa che la sua riforma non è stata gradita dall’elettorato ed è stata una delle cause della sconfitta elettorale nel Massachusetts il mese scorso. Quindi è lo lui stesso a scendere in campo per proporre il nuovo testo. Quanto poi agli esiti dell’incontro del 19 scorso con il Dalai Lama, è chiaro che, una lettura attenta dell’incontro ci rivela, in controluce, l’entità del mutamento nei rapporti di forza tra Stati Uniti e Cina e, in senso lato, tra un Occidente in crisi e un Oriente dominato dall’espansione economica e politica cinese. Da quando Pechino ha conquistato lo status di seconda superpotenza mondiale, il leader spirituale del Tibet, con le sue visite che propalano più imbarazzo diplomatico che gaudio politico, viene ormai percepito dalla maggioranza dei governi occidentali come una carismatica mina vagante. Sicchè quello fra lui è il Dalai Lama, è stato un copione da “disinnesco” (definizione felice di Enzo Betizza su La Stampa), con una circospezione simbolica che è andata ben al di là di quelle riservate, fin dal 1991, al Dalai Lama, dai precedenti capi di Stato americani. Per placare l’animosità dei cinesi, che considerano il pontefice in esilio del Tibet “un lupo travestito da monaco” e guardono con irritazione agli USA che vendono armi a Taiwan e sostengono Google, Obama non poteva fare di più. Blindando l’incontro e sminuendone così l’impatto politico, il presidente ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato ha inteso non alienarsi del tutto le simpatie in calo dei sostenitori liberal, che già lo accusano di eccessiva tiepidezza nella difesa dei diritti civili da Guantanamo al Tibet, dall’altro ha offerto alla Cina la visione di un incontro assai più cauto e perfino più avaro del previsto.
Ed è questa politica binaria che gli si rimprovera anche in casa, con consensi in picchiata a popolarità del presidente Barack Obama è in picchiata, come suggerisce un sondaggio condotto dall’istituto Rasmussen e reso noto il 22 febbraio, con solo il 22% degli americani schierati con convinzione a favore della politica del presidente La sua popolarità – che tiene conto anche di chi lo appoggia senza esprimere particolare entusiasmo – è scesa al 45% e la percentuale di chi non ne approva l’operato è invece salita al 54. Secondo gli analisti di Rasmussen, Obama tocca il fondo tutte le volte che parla di riforma della sanità, che la maggioranza degli americani continua a vedere con sfavore ed ogni volta che si mostra aperto a ragioni umanitarie, senza poi portarle a compimento.
Carlo Di Stanislao
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