Quelli della mia generazione, da bambini, si entusiasmavano per Garibaldi e per i suoi garibaldini. Tutti sapevano di Pellico, Mazzini, Cavour, Gioberti, Mameli, i fratelli Cairoli. Poi, con la caduta, auspicabile, del fascismo, il non auspicabile oblio. Il cinema, che prima dell’ultimo grande conflitto celebrava non episodicamente l’epopea risorgimentale, ha da tempo semplicemente abbandonato l’argomento. Per non parlare, pi, della televisione. Il Risorgimento, quindi, cessato come mito, è diventato argomento di nicchia, quasi sempre trattato con intenti demolitori. Così, dalla grande storia, ora ci siamo ridotti alla “storia in mutande o delle mutande”. Domenica scorsa Andrea Roma su il Sole 24 ore titolava un suo pezzo “Il Risorgimento non basta più” gli ha fatto eco, su Il Giornale, Giordano Bruno Guerri, entrambi convinti della loro teoria (il Risorgimento non basta a tenere desta l’italianità), in base ad un dato:solo l’1,3% di tutti i libri venduti in Italia tra il 2007 e il 2009 ha come oggetto la vicenda Risorgimentale; ben poca cosa rispetto al successo di altri temi storici, come Roma antica (11,6 %), il fascismo (7,3) o persino il Medioevo (3,8). Circa le cause di tale disaffezione i due studiosi non sono d’accordo. Per Romano la colpa è dei partiti politici, le forze che hanno avuto l’onore e l’onere di raccogliere il consenso democratico e di organizzare le rappresentazioni simboliche collettive. Dice in sostanza Romano: “oggi possiamo .constatare che né l’universo berlusconiano né quello che a Berlusconi si contrappone hanno prodotto qualcosa che somigli a un’idea di patria”. Invece per Guerri “la politica produce interpretazioni storiche distorte, tendenziose e utilitaristiche. Non abbiamo una degna e realistica storia del Risorgimento perché venne ricostruita dai suoi stessi autori e conservata tale e quale dal fascismo, cui la retorica risorgimentale conveniva assai”. Ora non so chi dei due abbia ragione (direi entrambi, a lume di naso), ma oltre ad invitare, come ha fatto Gino Messina su Il Corriere il 25 scorso, i giovani storici a “riscrivere e meglio quelle pagine”, inviterei anche i rappresentanti politici ad occuparsi, e meglio, di quei momenti, senza lasciare come “vento straordinario” da Protezione Civile, i festeggiamenti per il 150° anniversario della nostra unità. Ora, tra poco più di un mese, il 17 marzo, inizierà il percorso che porterà ai festeggiamenti ufficiali del 2011 per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Una ricorrenza che per la situazione storica e politica attuale del nostro paese, dovrebbe – a mio avviso – aprire dibattiti interessanti e costruttivi. Dico “dovrebbe”, perché la tv di Stato italiana, per rispolverare l’amor patrio, ci ha appena propinato, attraverso il fenomeno mediatico più importante dell’anno (il Festival di Sanremo), una delle canzoni più imbarazzanti della storia del Festival, quella scritta dal principino erede dei Savoia, che, inoltre, è stato fatto arrivare secondo. E, cosa ancora più grave, il popolo lascia fare, proprio come 150 anni fa lasciò che ogni singola gente d’Italia, ribellatasi dal giogo delle varie monarchie, in nome della “nazione Italia” si lasciasse comandare da un’ altra monarchia: quella dei Savoia. Forse è per questo che il principino – in vista di questa ricorrenza – se la canta e se la balla. Penso quindi che poco, il popolo italiano di oggi, abbia del popolo che diede vita al Risorgimento, che lesse le pagine di Leopardi, di Foscolo, di Manzoni, un popolo, quello odierno, che appare lobotomizzato da canzoni come quella del trio Pupo-Filiberto-Canonici e che manca del tutto di conoscenza e rispetto per chi diede la vita per l’ideale della patria. Ripensare al Risorgimento dovrebbe restituirci questo: il giusto valore alla parola risorgere, ricordandoci di essere la patria dell’arte e della cultura. Ma, con l’aria che tira fra noi comuni mortali e gli “dei della politica”, la vedo davvero difficile.
Carlo Di Stanislao
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