“Schiele e il suo tempo”, curata da Giuliana Allievi presso le sale del Palazzo Reale di Milano (catalogo Skira), con 82 opere esposte, 35 di Schiele, le altre dei contemporanei, da Klimt, a Kokoschka, da Moser a Moll, per citare i maggiori, è stata inaugurata il 24 febbraio e resterà aperta sino al 6 giugno. Un evento straordinario per uno straordinario pittore “secessionista”, poco noto, ancora oggi, al grande pubblico. Morto nel 1918, a soli 28 anni, ritenuto dai contemporanei un depravato, che amava dipingere fanciulle nude in pose decisamente sconce, invaso da manie sessuali che gli impedivano di arrestarsi di fronte al “normale senso del pudore” e che per questo motivo subì 24 giorni di prigione; Schiele è riconosciuto insieme con Klimt, Modigliani, Picasso, Matisse, Klee e Kandinsky, come uno dei padri fondatori dell’arte del nostro secolo. Il “Diario dal carcere” di Schiele, prezioso nel lasciar scoprire l’aura romantica del suo essere artista, pubblicato da Skira in occasione della mostra, è una sorta di appendice straordinaria che arricchisce il percorso di conoscenza ravvicinata del grande e controverso artista austriaco: traghettatore impietoso e suggestivo dell’estetica secessionista nell’eresia figurativa espressionista, morto giovanissimo, sfinito dalla febbre spagnola, tre giorni dopo lo moglie Edith, al sesto mese di gravidanza. Dura, ansiogena, nervosa, psicologicamente agonizzante appare l’arte “degenerata” di Schiele, che infonde tensione disumana nelle sue femmine imberbi – ragazzine, spudorate lolite tutte ossa, occhi e genitali, dedite all’autoerotismo maniacalmente immortalato come esercizio solitario che diventa per Schiele un gesto estremo di desolazione e inerzia – nei nudi femminili condannati a pose quasi innaturali, negli autoritratti (splendido l’Autoritratto con alchechengi del 1912) e nei ritratti animaleschi, struggenti, disadattati, picchi di virtuosismo psicologico, così come nei meno noti paesaggi, dove Schiele rinuncia a qualsiasi connotazione topografica, rinnegando la prospettiva, tanto da ridurli a una giustapposizione di forme geometriche. Opere che sanno raccontare la compassionevole condizione umana, attraverso una figurazione emotivamente carica. Molti sono i suoi capolavori, ma il più emblamatico, secondo me, resta “Ragazza inginocchiata con abito arancione-rosso” (1910)[1], cui fece da modella la sorella del pittore Gertrude: il vestito arancione a triangoli e la chioma raccolta, un occhio scavato che guarda dritto. Una mano sulla fronte, l’altra incastonata dietro le spalle aguzze. Le forme ridotte al minimo, è poco più che una sagoma raddensata dal colore. Pulsa in lei qualcosa di recondito e inquieto. Un lungo segno ne indica l’insolita torsione. Pochi metri e sulle pareti solo ambrate è il più erotico e dalla stesso titolo, realizzato sette anni dopo, a far da padrone.La mostra è stata realizzata in collaborazione con il Leopold Museum di Vienna, promossa dal Comune di Milano, coprodotta e organizzata da Palazzo Reale e Skira editore
Carlo Di Stanislao
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