Mentre è ancora nella sale “Il Profeta”, è atteso, per il prossimo 16 aprile, un altro “prison movie”: “Cella 211” dello spagnolo Daniel Monzón. Interpretato benissimo da Alberto Ammann e Luis Tosar (nel ruolo di Malamadre, il “capo” della rivoluzione dei carcerati), Cella 211, che ha trionfato ai Goya vincendo sette premi, racconta di Juan Olivier sta per iniziare il suo nuovo lavoro da secondino: ma il suo incarico sfortunatamente parte proprio con l’inizio di una rivoluzione da parte dei carcerati. Quanto a “Il Profeta” del francese Jacques Audiard, ha vinto ben nove Premi César 2010, tra cui quello per il miglior film, oltre ad esserestato candidato come miglior film straniero ai Premi Oscar di quet’anno. Un vero e proprio romanzo di formazione al crimine, con un realismo meticoloso e quasi scientifico, non solo nella resa della vita carceraria ma anche nella descrizione del profilo psicologico del protagonista, e delle cause che muovono le sue azioni. Un film duro che ragginuge l’apice della tensione emotiva nella scena dell’iniziazione di Malik con bravissimi protagonisti (Tahar Rahim e Niels Arestrup) e un regista da tenere d’occhio. Infine, sempre del genere “prison”, il nuovo capolavoro di Martin Scorzese: “The Shuttle Island” con un Di Caprio da Oscar. siamo nel 1954 quando Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e Chuck Aule (Mark Ruffalo), due agenti federali, vengono inviati a Shutter Island, al largo di Boston, in un ospedale psichiatrico nel quale sono detenuti numerosi criminali psicopatici. I due agenti hanno il compito di trovare Rachel Solando, una pericolosissima detenuta condannata per omicidio e misteriosamente scomparsa. Ad ostacolare la loro missione un uragano che si abbatte sull’isola. I due agenti scopriranno qualcosa di molto inquietanto su di lei: ha ucciso i suoi tre figli, da anni sotto le cure del direttore dell’ospedale, il dottor Cawley ( Ben Kingsley).
Thriller psicologico che ci fa entrare nei meandri claustrofobici del carcere e della malattia mentale (che è a suo modo un carcere), “Shutter Island” è al confine tra il noir e l’horror e scava in profondità con grande suggestione e sconvolgente tensione, dentro gli incubi di molti di noi. Alternando colpi di scena, continui cambi di prospettiva legati a diverse chiavi di lettura possibili, il tutto condito con un uso straordinario del flashback come non se ne vedevano da tempo, Scorsese costruisce sequenze oniriche ricche di macabra poesia, che sfiorano la perfezione scenica, veri e propri piccoli capolavori che annoveriamo tra le perle visivamente più ispirate di tutta la sua filmografia. Il suo inconfondibile tocco sulla macchina da presa, un uso perfetto dei meccanismi di attesa e di costruzione della tensione nonchè la narrazione a mosaico costruita su ricordi, personaggi bizzarri, sogni, psicosi, trappole e indovinelli, permettono al regista, due volte premio Oscar, di spiazzare lo spettatore e di condurre il gioco in vantaggio sino all’ultima scena, senza mai titubanze o incertezze, con la sicurezza e la genialità di chi sa esattamente cosa vuole ottenere, per sé e per chi guarda, ed è consapevole di essere riuscito ad ottenerlo divertendosi come un pazzo.
Il film, che certo resterà nella storia del cinema, è tratto dal romanzo “L’isola della paura”, scritto da Tennis Lehane e pubblicato nel 2003. Dapprima acquistato per il cinema dalla Columbia, è stato poi acquistato dalla Phoenix Pictures, che affidò a Laeta Kalogridis la realizzazione di una sceneggiatura, impresa che comportò una fatica lunga un anno. Come disse una volta Truffaut: “Non ci sono opere, ci sono solo autori”. Il senso di questa frase è semplice: un film non va mai considerato solo – e soprattutto – come una cosa a sé stante, un oggetto “finito” e perfettamente compiuto in sé e per sè. E guardando quest’opera pensiamo al suo autore, poiché il film contiene tutti i segni distintivi del grande cineasta italo-americano: curiosità/fascinazione per i meccanismi mentali che scatenano la follia, il concetto di violenza come forza motrice e presupposto inevitabile di ogni civiltà, il concetto di “colpa” rielaborato e metabolizzato anche alla luce della propria educazione cattolica. E se questo non bastasse, aggiungo che Shutter Island è il film più spiccatamente “thriller” di tutta la filmografia scorsesiana (molto più di Cape Fear) e riesce come pochi altri a farci compiere una graduale discesa negli abissi della distorsione mentale, lasciandoci immersi fino alla cintola nella paranoia, nella paura e nel delirio psicotico.
Carlo Di Stanislao
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