Nel 2007 aveva scritto, per Shel Shapiro, uno spettacolo intitolato “Sarà una bella Società”, che vidi al Mittelsfet di Udine a luglio di quell’anno. Vi si raccontava la storia di alcune generazioni, con lo strumento popolare delle canzoni e con la voce e il volto di un protagonista che si presenta sul palcoscenico a evocare una storia con la sua stessa presenza: la voce, la chitarra, l’immagine anche fisica di Shel Shapiro; un esercizio mentale irresistibile, che riuscì a farmi recuperare il clima di un’epoca, lo spirito di quei tempi, l’intera psicologia di chi ha attraversato, giovane, gli anni sessanta e settanta. Giornalista, politologo e scrittore, Edmondo Berselli è morto ieri 12 aprile, al policlinico di Modena dopo un lungo periodo di malattia. Aveva solo 59 anni e con il suo contributo intellettuale, davvero fuori dal comune, dalla lunga e feconda attività al Mulino sino a quella di editorialista e saggista, improntato sempre a passione civile per il nostro paese; è stato un osservatore lucido e non conformista della vita italiana di questi ultimi anni. Come ha scritto Maurizio Carvesan su “Il Giornale”, è stato “il più mancino dei maestri”, dotato di ironia ed autoironia e di uno sguardo sempre attento e disintaso sulle cose. A coloro che leggevano i suoi articoli e i suoi libri e agli spettatori delle sue trasmissioni, mancherà la passione con cui ha raccontato il nostro Paese, le sue tradizioni e i suoi cambiamenti, in modo diretto e brillante, sempre libero da condizionamenti e pregiudizi. Il suo primo libro, “Il più mancino dei tiri”, era arrivato nel 1995, un libro di grande successo dove il calcio (sua grande passione, come il cinema, oltre alla politica), era solo un espediente per raccontare la fine da poco consumata dei partiti della prima repubblica e nel quale Berselli enunciava così il proprio programma: “Con un sentimento piuttosto romantico confido in una storia in cui tutto è sincronico: “considero contemporanei Mammolo e Pisolo come John Lennon e Woody Allen, il Grande Blek e Giuliano Amato, Felice Gimondi e Romano Prodi”. Come annota su “il Sole 24 Ore”, Andrea Romano, una coincidenza sfortunata ha voluto che proprio nel giorno della scomparsa di Berselli il ministro Sacconi se ne sia uscito con un attacco al “nichilismo delle generazioni degli anni 70, che sono entrate nei mestieri dell’educazione, della magistratura e dell’editoria… per infrattarsi. Perché è sempre meglio che lavorare”. Non so quale editoria (né quale educazione o magistratura) abbia in mente Sacconi, ma so che proprio la fucina editoriale aveva portato al giovane Berselli tutto il contrario del nichilismo. Credo che il suo libro più importante sia “Post-italiani. Cronaca di un paese provvisorio”: un libro fondamentale perché impietoso, quasi feroce nel ritrarre le ideologie e i protagonisti di una transizione italiana che già allora ci appariva infinita e sfinente. Dal 2003, dopo aver collaborato con Rai 2 e il Sole 24 Ore, aveva iniziato a scrivere per Repubblica e l’Espresso, rappresentando in modo appassionato tutti i tormenti recenti del centro-sinistra. Come nel sottotitolo al suo “Sinistrati”, cioè “Storia sentimentale di una catastrofe politica”, l’ultimo suo libro politico venuto subito dopo il voto del 2008, nel quale gli eterni perdenti di questo ventennio sono trattati con la benevolenza di un progressista che non aveva mai rinunciato all’intelligenza dell’ottimismo, ci ha insegnato ad essere capaci di critica e di radicali cambiamenti. La sintesi del suo pensiero in questa sintetica frase: “Per me, nessuna sinistra ha senso se si autocondanna a restare minoranza. Detesto quelli che sanno individuare sempre nuovi problemi. Mi piacciono le soluzioni. Ma quelle latitano e latiteranno nella sinistra del ma anche, del sì, però, del no, e purtuttavia, del punto non è questo e del ben altro. Rileggendola scopro che ha ragione il suo grande amico (dai tempi de Il Messaggero) Mario Ajelli: Berselli non c’è più, ma i “Sinistrati” sopravvivano ancora.
Carlo Di Stanislao
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