Ogni anno quando arrivo l’8 marzo sembra che magicamente tutti si sveglino da un lungo sogno. Le persone parlano di parità e rispetto. La classe dirigente inneggia all’impegno sociale all’eliminazione del gender gap. I mariti corrono ad arricchire le tasche dei fioristi e le mogli quelle dei ristoratori. Poi arriva il 9 … e il sonno ricomincia! Le differenze? Quelle rimangonoOccupazione e disoccupazione. Osservate la tabella di seguito
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Tasso occupazione (2009) – individui tra i 15 e i 64 anni –
Donne 47,00% Uomini 71,00%
Notate la differenza? E già…. parliamo di ben 24 punti percentuali! Per meglio comprendere il ritardo che vi è nel nostro paese si deve fare riferimento agli obiettivi stabiliti dal Consiglio europeo di Lisbona: tasso occupazione femminile pari a 60% da raggiungere entro nel 2010. Non è difficile dire… mission impossible!
Ma la sapete una cosa? Anche il tasso di disoccupazione tra la popolazione femminile è diminuito. A differenza di quanto si potrebbe a prima vista pensare, questo calo è un forte segnale di sfiducia e rinuncia. Le donne smettono di cercare lavoro perché convinte di non trovarne passando così dalla condizione di disoccupata a quella di inattiva.
Differenza di salario: gender wage gap. Ieri, giovedì 15 aprile, si è celebrato il Equal Pay Day, ossia la giornata della parità salariale tra uomini e donne. Ma com’è la situazione attuale? L’ Italia presenta un differenziale del 4,9% rispetto al 18% della media europea e per questo risulta lo scarto minore. Uno sguardo superficiale alla differenza salariale tra generi nel nostro paese conduce a conclusioni fuorvianti. Le donne italiane, infatti, tendono a lavorare meno ore rispetto agli uomini, scegliendo orari di lavoro più corti, sono maggiormente occupate in contratti part-time e meno disponibili al lavoro straordinario. Se consideriamo il reddito lordo annuo, le lavoratrici percepiscono tra il 50 e il 70% di ciò che guadagnano annualmente gli uomini. Le difficoltà che le donne incontrano nel mondo del lavoro si traducono in un minor reddito complessivo, in minori contributi previdenziali, perciò minori pensioni future, oltre ad una ridotta autonomia economica della famiglia.
Quali sono gli strumenti giusti? Il nostro sistema di welfare, sicuramente generoso, appare ancora troppo sbilanciato verso la spesa pensionistica e ancora limitate sono le risorse destinate alla famiglia. Si fa ancora grande ricorso ai legami intergenerazionali e alla loro promozione invece di mettere in atto interventi diretti all’infanzia, alla disabilità e alla famiglia. Politiche incentrate sulla conciliazione tra impegni lavorativi e personali, sussidi agli asili nido, maggiore flessibilità negli orari di lavoro possono dare un interessante impulso positivo alla situazione occupazionale delle donne. Proprio in tema di strutture per la prima infanzia l’obiettivo stabilito dal già citato Consiglio di Lisbona di 33 posti ogni 100 bambini è lontano dall’essere raggiunto, in Italia (il cui dato si attesta intorno al 23%, con importanti differenze tra le regioni del nord e quelle del sud) così come nel resto dell’Europa.
Gli effetti di un cambiamento di rotta? Molti studi europei mostrano come minori squilibri di genere, riguardanti sia l’occupazione sia il livello retributivo, permettono una maggiore crescita economica e un aumento della natalità. Un’aumento dell’occupazione femminile rende necessario lo sviluppo di un mercato dei servizi di cura precedentemente effettuati in maniera informale. Questo porta alla creazione di nuovi posti di lavoro e ad un ulteriore stimolo positivo sulla natalità. Ma gli effetti sul PIL? Secondo una ricerca svolta da Goldman Sachs l’assenza di gender gap potrebbe portare ad un aumento del PIL pari a circa 13% nella zona euro e 22% nella sola Italia.
Ma non è solo equità. Ogni volta che si discute di condizione femminile si cade nella trappola di concentrarsi esclusivamente sulle pari opportunità tra generi e sull’equità nei trattamenti. Non si deve dimenticare, infatti, che la necessità di una maggiore integrazione della popolazione femminile risponde anche a principi di efficienza economica.
Da qui nasce il concetto di Womenomics introdotto per la prima volta nel 2005 da Kathy Matsui, analista di Goldman Sachs, e venne ripreso l’anno successivo da The Economist per esplicare l’idea che il motore più importante dello sviluppo mondiale sarebbe rappresentato dal lavoro femminile.
Elisa Ghione
economia.iobloggo
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