La legge n. 55/2010, che ha disciplinato la dicitura “made in Italy” sulle scarpe, forse porrà un freno alla marea di scarpe che vengono dalla Cina con un’etichetta abusiva dell’origine italiana, spesso con i semplici colori della bandiera. Si calcola che siano 130 milioni di paia, ma sono cinesi di nome, perché di fatto sono talvolta di aziende italiane che hanno messo gli impianti in Cina. La legge ha stabilito che la dicitura “made in Italy” può essere usata soltanto se sono avvenute in Italia almeno due di queste fasi di lavorazione della scarpa: concia, lavorazione della tomaia, assemblaggio e rifinizione. Era da anni che si parlava di una norma del genere, essendo l’indicazione del Paese di origine sui prodotti, è un diritto elementare del consumatore. Non si tratta soltanto del diritto di scegliere un prodotto nazionale per aiutare l’economia interna ed evitare che chiudano fabbriche, togliendo lavoro e sussistenza a molte famiglie. Nessuno può negare che questo sia un motivo umanitario. Ma si tratta anche del diritto di scegliere un prodotto fabbricato secondo regole e normative che non esistono in molti altri Paesi del terzo mondo e che garantiscono una maggiore sicurezza e affidabilità. Si tratta infine del diritto di scegliere prodotti che non provengono da Paesi ove c’è lo sfruttamento selvaggio di lavoratori e minorenni sottopagati.
Emanuele Piccari
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