La realtà del terremoto ha bisogno di un nuovo linguaggio: bisogna dire l’indicibile e allora ci siamo attrezzati. Cominciamo dall’inizio. Ci sono tre scuole di pensiero. Una che usa la parola “sisma” quasi con sussiego scientifico; la seconda sceglie la parola “terremoto” pronunciandola ancora con un po’ di paura, la terza che non la pronuncia nemmeno e affida a una perifrasi apotropaica e impersonale la domanda o l’affermazione “l’Hai sentito?” Oppure: “Ha rifatto”. Poi sono venuti gli acronimi per abbreviare lunghe e oscure diciture come fanno gli amici o i conoscenti che si chiamano per nomignoli, nickname, soprannomi : COM ( centro operativo Misto ) Dicomac ( Direzione comando e controllo); hanno fatto capolino i MAP (Moduli abitatiti provvisori) i MUSP ( moduli Uso scolastico provvisorio); addirittura i MEP ( moduli ecclesiastici provvisori). Ovviamente non possiamo dimenticare le C.A.S.E che più imprecisamente qualcuno vorrebbe chiamare new town; come si può chiamare città qualcosa che non ha un centro, non ha un luogo e che anche nell’identificazione ( Coppito 1, 2 o 3, Sassa, Bazzano…) è carente e si appoggia a qualcos’altro? Ci stiamo americanizzando in questa idea di città mobili e provvisorie, quasi vacanziere, tutte uguali, con numeri che distinguono le vie e che si innalzano in poco tempo e mutano definitivamente il profilo di un paesaggio … “Lì dove c’era l’erba ora c’è … una città.” Quanti alberi sono stati tagliati in questo anno per fare posto alle rotonde, a nuovi insediamenti, all’allargamento di una strada? Inezie, certo, di fronte al disastro, ma inezie che trasformano il volto della nostra terra. Dovremo rivedere la toponomastica per non sentir dire “ abito alla piastra numero 5, secondo piano”. Tutti elementi che sottolineano davvero il senso della provvisorietà, rafforzano e inducono lo spaesamento. I nomi sono l’essenza delle cose. Per questa ragione il bagno chimico è diventato ormai famoso con il nome di una marca: SEBAC. Non entro nei particolari delle lettere usate per la classificazione delle case, tristemente famosa; è la stessa contenuta in tutti i libretti delle istruzioni ; A, B, C … più si va oltre nell’alfabeto, più l’inferno è certo e il tempo si dilata. Nella nostra storia architettonica e antropologica, anche i paesi più piccoli hanno, come la città, un centro: nella piazza, il comune, la chiesa, la fontana monumentale o la più democratica fontanella coesistono l’una accanto all’altro, c’è la scuola, l’ufficio postale, il bar o la fermata dell’autobus, la panchina o la fila di alberi a sottolineare la funzione come luogo di aggregazione. Nei Map di Arischia ho visto delle panchine posizionate al contrario: invece di guardare la bella veduta panoramica sulla valle sottostante, sono volte verso le facciate provvisorie dei Moduli provvisori. Dall’altra parte c’è un panorama costruito dai secoli, ma tant’è. Ci sono altre parole indicibili: tutte quelle della nostalgia che stanno dentro i nostri occhi, basta guardarsi per leggerle e vederle riflesse. Quelle di chi ancora vive in una camera d’albergo e ha per orizzonte un mare estraneo; e non sa ancora quando e come potrà tornare. In una delle via crucis lungo il centro, a metà di via Sassa, ho incontrato Nonna Anna. Mi chiede di non farle fotografie ma mi racconta tutto volentieri, mentre spazza con una scopa di saggina la strada. A 82 anni ha pulito da sola la fogna, l’ha liberata, perché l’acqua rovina le fondamenta della casa. Dorme nell’Albergo di Viale duca degli Abruzzi, viene qui a tenere in ordine, a togliere la polvere . Una donna piccola, minuta ; le trema leggermente il viso ma mi guarda negli occhi: “ vengo tutti i giorni a pulire la mia città, casa mia e questa strada. Quelli mi vogliono portare a Paganica ma io non ci vado. ” E’ vero, il pezzo di strada brilla, controluce. Non ho fatto nemmeno una foto a Nonna Anna. Sono risalita verso la piazza, quegli occhi erano due spilli. Pungono ancora.
Patrizia Tocci
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