(a proposito degli evasori e degli operai)
Supplica
Forse il clima ballerino, a volte il caldo a volte il freddo, forse la stanchezza dopo tanto stress dallo scorso autunno ad oggi, forse l’estenuazione per il tanto ascoltato, detto o urlato, e il troppo non chiarito propagandato, forse la fuga nella nostra cuccia tra le nostre stesse braccia intrecciate e il non volere altro che una tregua. Tregua con noi stessi e tregua nel tenere in assoluto non cale qualsiasi giudizio altrui, compreso quello mio su quel che sto per dire che compendio come sfogo forse al limite del ridicolo.Infatti intendo supplicare a mani giunte i grandi evasori che da soli potrebbero se non risolvere contribuire fortemente a ridimensionare ogni problema del nostro Paese. Forse dovrei togliere il “forse”, sì perché a paragone del vile denaro che entrerebbe nelle casse dello Stato, se costoro decidessero di amare il prossimo italiano ed effettivamente tanta sofferenza da privazione potrebbe cessare, questa loro decisione compirebbe un’operazione ancora più importante, quella di cessare d’essere negativi modelli cui la gente si sente legittimata a imitare. E, sempre non strettamente in rapporto con il vile denaro (nonostante che molto probabilmente la piccola evasione praticata dai grandi numeri avrebbe lo stesso potere di compensazione), ciò che più emergerebbe è uno stile di vita dell’Italiano autentico cioè spogliato da ogni retorica, finalmente rinato o riconosciuto, reale ed essenziale.
Quindi supplico a mani giunte i grandi evasori di rientrare nei ranghi del sano comportamento come individui come cittadini e come modelli sociali. I grandi numeri pian piano seguirebbero.
Supplica ridicola?
Non ne sono del tutto convinta. E’, come tutto, questione di diffusione mediatica, questa volta di un prodotto…finalmente di etica emergenza.
Gratitudine
Per chi?
E ora dico la parola scottante: per gli operai.
E qui vado in confusione. Operai non sono forse coloro che operano, e s’intende per il bene di tutti? Era questo che intendevo dire? All’inizio di questo Pulviscolo no, intendevo operai solo quelli delle fabbriche e dei cantieri. Ora nel mettere nero su bianco spiego che evidentemente quello che ho ora scritto è stato svolto dalla mente mio malgrado, come ovvia conclusione che definisce operai tutti coloro che operano ( e aggiungo di nuovo, per il bene altrui). Ma il tema era, ripeto, più prosaico forse, ristretto agli operai delle aziende, delle imprese, in una parola della produzione, da quella da cui dipende la ricchezza del Paese.
Ecco che ci siamo. Ma perché desidero esprimere la mia gratitudine a questi particolari operai?
La risposta è – nonostante sappia di non essere strettamente nel vero – nella sensazione che mi pervade da tutto il sentito e visto in questi ultimi anni, e cioè che il destino del Paese dipende appunto esattamente da loro. Preciso però subito che in questo ”loro” non includo quelli dello sciopero come risorsa abitudinaria specie di matrice ideologica, non perché non lo ritenga un diritto inviolabile, allo stato attuale della nostra assai imperfetta democrazia, ma perché mi auguro che giorno verrà in cui le rivendicazioni della gente “senza potere” troveranno più civili strumenti idonei a sostituire alla forza dei numeri la forza del buon senso e dell’altruismo (s’intende non unilaterale) come principale moneta di scambio tra opposte interpretazioni della realtà.
Sì, ma non ho spiegato il perché di questa gratitudine che sento fortemente ma che individuo a fatica sommersa com’è da stratificazioni di interferenze di assai varia e contrastante identità. (Ma qui le sorvolo e vado dritta alla ricerca del perché, meglio dei perché).
Se gli operai incrociano tutti nello stesso istante le braccia, il Paese crolla. E’ così, non è vero? Si tratta della forza dei numeri nell’uso della ritorsione.
Per assonanza: se i soldati o coloro che ne fanno tristamente le veci (leggi terroristi) incrociassero le braccia si salverebbe il mondo. Qui la forza dei numeri spoglierebbe di potere lo scontro frontale apicale politico e capovolgerebbe la piramide degli assetti sociali.
Sempre per assonanza: se i consumatori escludessero tutti dallo loro scelte certi prodotti potrebbe cambiare lo stile di vita mondiale e la scala dei valori. I creativi sarebbero costretti a usare la loro intelligenza esclusivamente per il bene collettivo e non il contrario o per vantaggi selettivi.
Infine: certe grandi fortune si sono fatte non su grandi disegni ma su ideuzze poi moltiplicate per i grandi numeri.
E’ vero, tante minutaglie (fatte credere indispensabili tali non essendo) di basso prezzo, quindi accessibili a tutti, soddisfano l’impulso e l’ambizione illusoria di disporre di un potere di acquisto.
Tutto questo mi parla della responsabilità e del peso dell’individuo quale componente di massa. E mi mette in crisi la considerazione che l’idea, la creatività, il modello innovativo, contino di più della loro quotidiana realizzazione grazie alla forza lavoro.
Sto scantonando? Non lo so, ma ne dubito, perché la mente segue una sua logica che spesso non viene seguita, per immaturità o scarsa preparazione, dalla consapevolezza.
Ma torniamo agli operai cui mi sento indicibilmente grata. Mi libero come premessa dall’ovvio come causa, cioè dalle troppe morti sul lavoro, ogni volta ho perso un fratello, o dall’eccesso di fatica e di perdita del riposo o della pausa, o comunque del recupero delle forze fisiche e psichiche. Né dimentico le morti di non pochi imprenditori suicidi per non essere in grado di salvare dalla bancarotta l’azienda e con essa i suoi operai. E vado a cercare nella globalizzazione.
La globalizzazione mi pare spiazzare ogni logica e ogni rivendicazione anche sacrosanta dell’operaio, tanto dista un operaio dall’altro a seconda dei luoghi. Quindi la globalizzazione favorirebbe coloro che operano nei Paesi meno avanzati ma emergenti e penalizzerebbe gli operai dei Paesi tecnologicamente da tempo più progrediti. Ma anche qui la forza dei numeri stupisce e sgomenta. Perché non è sempre vero che i Paesi tecnologicamente più progrediti o oggi in crescita economica esponenziale siano i più prosperi, vi sono Paesi avanzatissimi che non riescono ad alzare il livello medio della popolazione e che piuttosto creano caste privilegiate e moltitudini di derelitti.
Probabilmente questo squilibrio è dovuto alla eccessiva velocità della globalizzazione e anche alla ancora forse maggiore velocità della comunicazione multimediale usata senza rispetto umano (Un esempio? L’insistita raffigurazione dell’atto di portare alla bocca, quasi a farci vedere l’euforia delle papille gustative, cibi e leccornie più varie ben conoscendo il tragico problema della fame nel mondo).
L’emigrazione potrebbe sembrare la misura più adatta per mettere in moto un equilibrato livellamento tra operai. Sembra ma non mi pare che lo sia, oltre a nutrire più di qualche dubbio sul suo costo quando si tratti di rifiuto di fatto ad integrarsi tra costumi estranei ed opposti, ciò che apre falle peggiori dello squilibrio economico. E come non notare la costante contraddizione in cui cade il nostro Presidente Napolitano quando da una parte esalta l’unità e l’identità e le radici del nostro Paese e dall’altra, indicando indistintamente tutti gli immigrati, li dichiara gli Italiani del futuro. E’ fortemente disorientante.
Ma, tornando agli operai, e gli altri? Quelli che non lavorano nei cantieri, nelle fabbriche, nelle imprese, nelle aziende, li dimentico?
So bene che un Paese è un corpo complesso come il corpo umano e che quindi l’insieme può godere di buona salute solo se tutte le parti di cui è composto funzionano allo stesso livello, ma l’anomalia del sistema mondiale cui tutti si sono attestati di fatto anche se a parole lo contestano, ci dice che il destino delle genti dipende dalla efficienza e dalla competitività del suo apparato produttivo. Come del resto mi pare storicamente sia sempre stato. Quindi è l’economia a prevalere e all’economia provvedono milioni di braccia di operai. Per questo sono grata agli operai di qualsiasi Paese ma non ignoro di tralasciare prudentemente il problema, sul quale da tempo vanamente si dibatte, di un’economia che è diventata, purtroppo tragicamente, la parente povera della finanza. Allora non so più qual è il rapporto di forza se di forza si può ancora parlare, tra le braccia dei lavoratori e i gesti rapidi degli investitori finanziari.
Sono in molti a parlarne, la mia minuscola opinione è che non si tratta di diabolici burattinai a segnare le sorti di questa negativa dipendenza, ma di automatismi che questa civiltà ha accumulato in una assai vasta complessità senza che sia emersa a tutt’oggi una nuova teorica economica, toccasana in grado di rimettere in diretta proporzionata connessione il lavoro con gli effetti produttivi e i relativi guadagni, per di più – e questo dovrebbe essere l’innovazione d’eccellenza – mai a scapito ora dell’uno ora dell’altro contesto. E’ possibile?
Non lo so, ma se l’uomo si dice intelligente, anzi geniale, non ha che da dimostrarlo.
Pertanto così stando le cose io sono grata agli operai.
Gloria Capuano
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