Qual è il mio dovere, tacere per deferenza o parlare per voler approfondire nel credere?
Se l’informazione non tradisce, ciò che accade all’ordine del giorno, Lei avrebbe classificato il sacerdozio femminile tra i crimini (suppongo contro la Chiesa di Roma), sempre se ho sentito bene.
Se così fosse il contraccolpo accusato in pieno petto troverebbe ulteriore forza distruttiva nella mia psiche. Perché si confermerebbe per l’ennesima volta una sorta d’idolatria anche o specie religiosa dell’assetto biologico (vero o presunto), come se l’evoluzione fosse indisponibile alle potenzialità umane.Subordinare la persona al genere a me pare, Santità, molto pericoloso. La dignità della persona risulta azzerata, non solo, ma – connotato ancora peggiore se possibile – viene rafforzato il motivo di fondo che – secondo le mie supposizioni – sta alla base di ogni tipo di violenza, dalla guerra allo stupro, dall’incesto alla pedofilia.
Il motivo di fondo consiste nella pervicace dominanza del maschile e nella condizione femminile di suo subordinato complemento a disposizione, figli compresi.. Tra l’altro – mi si affaccia questa piccola digressione – ancora non ho sentito mai parlare del concepimento se non come inseminazione maschile, come se il maschile potesse accedere alla paternità senza essere a sua volta attivato dal femminile, in altre parole a sua volta in un certo senso fecondato. Capisco la bizzarria di questa idea, eppure m’intriga forse non solo per reazione alla attribuzione di una presunta inerte passività nel concepimento attribuita al femminile. Quando, a rifletterci, l’ovulo appare ben più raro e perciò prezioso dello spermatozoo programmato in quantità a perdere. Senza contare che nell’atto della copula è il maschio ad apparire puro strumento veicolo per poter accedere al grande incontro. Ma tralasciamo queste banalità che purtuttavia nutrono troppi luoghi comuni deteriori.
Tornando all’antica assurda guerra unilaterale del maschio contro la femmina non so più a quando essa in definitiva venga fatta risalire mentre non sembra essere storicizzata come espressione comune a tutte le civiltà. Ida Magli potrebbe aggiornarci in proposito con la sua nota competenza.
Ho parlato di guerra unilaterale perché non credo che la donna voglia dominare sull’uomo così come non tutte le donne sottoscrivono l’intento di competere con essi in qualsiasi campo, salvo che ciò possa accadere come semplice risultato di un lavoro svolto con dedizione e serietà come persona, ossia senza intenti competitivi di sorta.
Personalmente sono per la libertà delle scelte e delle vocazioni ma aspiro a una sempre maggiore differenziazione del femminile, senza la quale non credo si possa sfuggire alla logica fortemente consolidata della civiltà dello scontro frontale con vittoria del più forte o del più violento che è tipico della civiltà al maschile, ma ammetto però di non avere certezze di quale sarebbe la civiltà al femminile nel caso che la realtà si ribaltasse e fosse la donna a regolarla.
Non entro nel merito del sacerdozio femminile non solo perché non ne ho la competenza ma anche perché non ritengo necessaria alcuna competenza. La donna così come l’uomo è prima di tutto individuo con diritti e presupposti attitudinali e vocazionali che proprio in quanto tali non possono essere sempre subordinati alla condizione di genere. Il suo destino di madre – del resto non alla portata di tutte le donne e neppure da tutte ambito – più che distoglierla dalla auspicata totale dedizione sacerdotale l’arricchirebbe grazie all’esperienza materna sul campo, dunque non solo teorica. E lo stesso potrebbe dirsi per il sacerdozio maschile. Condannato al celibato, il religioso è privato dell’esperienza realistica della paternità e non sappiamo se ciò possa essere responsabile della deriva pedofila. Ci sembra attendibile infatti attribuire alla paternità reale la funzione di potente argine all’antica idea di possesso del figlio e quella della graduale trasformazione etica e giuridica del rapporto padre – figlio in un sentimento responsabilmente protettivo e rispettoso del figlio stesso.
Fatte salve le aberrazioni o patologie che dir si voglia, spesso spie preoccupanti per l’appunto di un antico deleterio retaggio.
Naturalmente questi pochi affastellati accenni necessitano di circostanziate riflessioni e di testimonianze dottrinarie e storiche e di costume, ma forse sono sufficienti a indurre l’opinione pubblica a ben meditare prima di correre a frettolose conclusioni.
Pongo solo alcuni quesiti, sono davvero assimilabili l’obbligo del celibato e l’interdizione al sacerdozio femminile? Che cosa si teme, lo scadimento della spiritualità? e/o il rischio d’essere distratti dall’intimo totalizzante rapporto con il Cristo? La coppia umana, la paternità e la maternità rappresentano valori troppo profani, troppo lontani dalla purezza necessaria per darsi senza alcuna riserva a Dio?
Non ho titolo alcuno per rispondere, posso soltanto registrare in me una certa confusione nell’idea che a me appare preminente in non so quali e quante religioni o filosofie. A me sembra che esse ondeggino tra una stretta osservanza della biologia e dell’antropologia, e la meta elettiva di un totale distacco da ogni forma di fisicità verso una trionfante vittoria dello spirito.
E ora, con grande imbarazzo per una coatta ma purtroppo impotente urgenza di capire – e non so se mi arrogo una libertà illecita o inopportuna o troppo ingenua – mi sto chiedendo se ho parlato, in fatto di sacerdozio femminile, Santità, al nostro rispettato e amato Pontefice o all’uomo semisepolto dai forse troppo profani ma tradizionali, pesanti non solo metaforicamente, paramenti.
Gloria Capuano
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