Presentato oggi da Goletta Verde a Monopoli (Ba), il dossier nazionale Texas Italia di Legambiente, in occasione della Tavola Rotonda “La minaccia del petrolio sul futuro sostenibile della Puglia”. A parlare di tutti i dati e i rischi connessi all’estrazione del petrolio italiano sono stati: Stefano Ciafani, Responsabile Scientifico Legambiente, Francesco Tarantini Presidente Legambiente Puglia, Simone Andreotti, Responsabile Protezione Civile Legambiente, Fabiano Amati, Assessore Protezione Civile della Regione Puglia, e Emilio Romani,Sindaco di Monopoli.Rilanciata in nome di una presunta indipendenza energetica, la corsa all’oro nero italiano, stando alla localizzazione delle riserve disponibili, riguarda in particolare il mare e non risparmia neanche le Aree Marine Protette. Sono interessati il mar Adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il Canale di Sicilia. Tra le ultime istanze presentate c’è la richiesta della Petroceltic Italia di permessi di ricerca nell’intero specchio di mare compreso tra la costa Teramana e le isole Tremiti. Queste ultime in particolare sono minacciate anche da un’altra richiesta per un’area di mare di 730 kmq a ridosso delle isole. Sotto assedio anche mare e coste sarde, sulle quali pendono due recenti istanze della Saras e due più vecchie della Puma Petroleum, per un totale di 1.838 kmq nel golfo di Oristano e di Cagliari; la stessa società detiene una richiesta anche nello splendido specchio di mare tra l’isola d’Elba e quella di Montecristo, 643 kmq in pieno Santuario dei Cetacei all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.
È delle scorse settimane, infine, la notizia della partenza di una nave commissionata dalla Shell, che ha il compito di eseguire studi e prospezioni per individuare quello che viene considerato, usando le parole della stessa Shell Italia “un autentico tesoro” che porterebbe l’Italia a confermarsi “il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale”. Peccato che anche in questo caso le attività estrattive mal si combinerebbero con l’Area Marina Protetta delle isole Egadi e con un’economia basata prevalentemente su turismo e pesca.
Nei nostri mari oggi operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche – MC), tre di fronte quella abruzzese (Vasto – CH) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa.
Passando dal mare alla terra, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri (Eni e Shell), l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia.
Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Ma la quantità rischia di aumentare, perché stanno aumentando sempre di più le istanze e i permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano.
Una ricerca forsennata per individuare ed estrarre le 129 milioni di tonnellate che, secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, sono ancora recuperabili da mare e terra italiani. Ma il gioco non vale la candela. Infatti, visto che il Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l`anno, le riserve di oro nero made in Italy agli attuali ritmi di consumo consentirebbero all’Italia di tagliare le importazioni per soli 20 mesi. Ma estrarre il greggio nostrano fino all’ultimo barile sarebbe un’ipoteca sul nostro futuro.
Nonostante ciò è già partita una “lottizzazione” senza scrupoli del mare italiano, che per ironia della sorte avanza inesorabilmente proprio quando l’attenzione internazionale è concentrata sul disastro ambientale nel Golfo del Messico causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP (British Petroleum).
“In seguito a questo gravissimo incidente – commenta Stefano Ciafani, Responsabile scientifico Legambiente – sono state davvero propagandistiche le risposte date dal nostro governo. Il 3 maggio scorso, l’ex ministro Scajola ha convocato i rappresentanti degli operatori offshore per avere notizie sui sistemi di sicurezza ed emergenza senza risultati concreti. È importante notare che il risanamento per un incidente come quello americano nel nostro paese non sarebbe risarcito in maniera adeguata dai responsabili. Infatti ancora oggi le nostre leggi non hanno ancora risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e inoltre le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali. Altrettanto propagandistico ci è sembrato il provvedimento preso dal governo italiano a tutela di mare e coste nello schema di decreto di riforma del codice ambientale, approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo”.
Le attività di ricerca ed estrazione di petrolio verrebbero vietate nella fascia marina di 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale, limite che sale a 12 miglia per le Aree Marine Protette. Al di fuori di queste aree, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso.
“Si tratta di un provvedimento dall’efficacia davvero relativa – prosegue Stefano Ciafani -. La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? In caso di incidente sarebbe comunque un dramma per i nostri mari e per il Mediterraneo. Se spostassimo, infatti, la marea nera che sta inquinando il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano”.
Si tratta poi di una norma che contraddice quanto lo stesso governo Berlusconi aveva approvato con la legge Sviluppo del luglio 2009 quando aveva invece semplificato le procedure di Via rendendo la corsa all’oro nero più semplice.
Le istanze e i permessi di ricerca vengono poi valutati secondo un procedimento unico che coinvolge i diversi soggetti interessati. Se l’area in questione è su terra oltre lo Stato vengono coinvolti anche gli Enti locali (Regioni, Province e Comuni), mentre se il permesso è per eseguire ricerche sul sottofondo marino è previsto solo il parere da parte dello Stato e gli Enti locali sono esclusi dalle procedure, anche quando si tratta di aree a ridosso della costa, in cui un’attività di questo tipo modificherebbe non poco le attività economiche, turistiche e di altro tipo svolte dalle comunità che vivono sul mare.
Proprio la facilità delle procedure e il mancato coinvolgimento delle comunità locali sono, insieme ad un costo del barile che è tornato a livelli importanti (tra 75 e 80 dollari per barile), tra le cause principali della proliferazione delle istanze per i permessi di ricerca in mare. Richieste avanzate nella maggior parte dei casi, da imprese straniere come la Northern Petroleum (UK) e la Petroceltic Elsa, che da sole rappresentano circa il 50% delle istanze presentate negli ultimi due anni per un totale di 11mila kmq, che rischiano di essere ceduti in nome del petrolio e di una fantomatica indipendenza energetica, che di certo non si ottiene attraverso un rilancio dell’estrazione petrolifera in Italia, sa maggior ragione se a farla sono le imprese straniere.
Il gioco non vale la candela neanche dal punto di vista occupazionale. Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34mila posti di lavoro. Numeri che non reggono se confrontati con un investimento nel settore della green economy e delle rinnovabili. Anziché investire nella folle corsa all’oro nero e all’atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e fonti pulite, un settore capace di creare solo in Italia dai 150 ai 200 mila posti di lavoro entro il 2020 e capace di traghettare il paese verso un’econoomia a basso tenore di carbonio, una trasformazione necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello Europeo fissato per il 2020 (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2).
Rilanciata in nome di una presunta indipendenza energetica, la corsa all’oro nero italiano, stando alla localizzazione delle riserve disponibili, riguarda in particolare il mare e non risparmia neanche le Aree Marine Protette. Sono interessati il mar Adriatico centro-meridionale, lo Ionio e il Canale di Sicilia.
Tra le ultime istanze presentate c’è la richiesta della Petroceltic Italia di permessi di ricerca nell’intero specchio di mare compreso tra la costa Teramana e le isole Tremiti. Queste ultime in particolare sono minacciate anche da un’altra richiesta per un’area di mare di 730 kmq a ridosso delle isole. Sotto assedio anche mare e coste sarde, sulle quali pendono due recenti istanze della Saras e due più vecchie della Puma Petroleum, per un totale di 1.838 kmq nel golfo di Oristano e di Cagliari; la stessa società detiene una richiesta anche nello splendido specchio di mare tra l’isola d’Elba e quella di Montecristo, 643 kmq in pieno Santuario dei Cetacei all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.
È delle scorse settimane, infine, la notizia della partenza di una nave commissionata dalla Shell, che ha il compito di eseguire studi e prospezioni per individuare quello che viene considerato, usando le parole della stessa Shell Italia “un autentico tesoro” che porterebbe l’Italia a confermarsi “il Paese con più idrocarburi dell’Europa continentale”. Peccato che anche in questo caso le attività estrattive mal si combinerebbero con l’Area Marina Protetta delle isole Egadi e con un’economia basata prevalentemente su turismo e pesca.
Nei nostri mari oggi operano 9 piattaforme per un totale di 76 pozzi, da cui si estrae olio greggio. Due sono localizzate di fronte la costa marchigiana (Civitanova Marche – MC), tre di fronte quella abruzzese (Vasto – CH) e le altre quattro nel canale di Sicilia di fronte il tratto di costa tra Gela e Ragusa.
Passando dal mare alla terra, le aree del Paese interessate dall’estrazione di idrocarburi sono la Basilicata, storicamente sede dei più grandi pozzi e dove si estrae oltre il 70% del petrolio nazionale proveniente dai giacimenti della Val d’Agri (Eni e Shell), l’Emilia Romagna, il Lazio, la Lombardia, il Molise, il Piemonte e la Sicilia.
Complessivamente lo scorso anno in Italia sono state estratte 4,5 milioni di tonnellate di petrolio, circa il 6% dei consumi totali nazionali di greggio. Ma la quantità rischia di aumentare, perché stanno aumentando sempre di più le istanze e i permessi di ricerca di greggio nel mare e sul territorio italiano.
Una ricerca forsennata per individuare ed estrarre le 129 milioni di tonnellate che, secondo le stime del Ministero dello sviluppo economico, sono ancora recuperabili da mare e terra italiani. Ma il gioco non vale la candela. Infatti, visto che il Paese consuma 80 milioni di tonnellate di petrolio l`anno, le riserve di oro nero made in Italy agli attuali ritmi di consumo consentirebbero all’Italia di tagliare le importazioni per soli 20 mesi. Ma estrarre il greggio nostrano fino all’ultimo barile sarebbe un’ipoteca sul nostro futuro.
Nonostante ciò è già partita una “lottizzazione” senza scrupoli del mare italiano, che per ironia della sorte avanza inesorabilmente proprio quando l’attenzione internazionale è concentrata sul disastro ambientale nel Golfo del Messico causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP (British Petroleum).
“In seguito a questo gravissimo incidente – commenta Stefano Ciafani, Responsabile scientifico Legambiente – sono state davvero propagandistiche le risposte date dal nostro governo. Il 3 maggio scorso, l’ex ministro Scajola ha convocato i rappresentanti degli operatori offshore per avere notizie sui sistemi di sicurezza ed emergenza senza risultati concreti. È importante notare che il risanamento per un incidente come quello americano nel nostro paese non sarebbe risarcito in maniera adeguata dai responsabili. Infatti ancora oggi le nostre leggi non hanno ancora risolto il problema del risarcimento in caso di disastro ambientale e inoltre le piattaforme non sono coperte dalle convenzioni internazionali. Altrettanto propagandistico ci è sembrato il provvedimento preso dal governo italiano a tutela di mare e coste nello schema di decreto di riforma del codice ambientale, approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo”.
Le attività di ricerca ed estrazione di petrolio verrebbero vietate nella fascia marina di 5 miglia lungo l’intero perimetro costiero nazionale, limite che sale a 12 miglia per le Aree Marine Protette. Al di fuori di queste aree, le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi verrebbero sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). La norma si applicherebbe anche ai procedimenti autorizzativi in corso.
“Si tratta di un provvedimento dall’efficacia davvero relativa – prosegue Stefano Ciafani -. La norma non si applica infatti a pozzi e piattaforme esistenti. E poi cosa cambierebbe se un incidente avvenisse in un pozzo o una piattaforma localizzata al di là di 5 o 12 miglia dalle coste? In caso di incidente sarebbe comunque un dramma per i nostri mari e per il Mediterraneo. Se spostassimo, infatti, la marea nera che sta inquinando il Golfo del Messico nell`Adriatico la sua estensione si spingerebbe da Trieste al Gargano”.
Si tratta poi di una norma che contraddice quanto lo stesso governo Berlusconi aveva approvato con la legge Sviluppo del luglio 2009 quando aveva invece semplificato le procedure di Via rendendo la corsa all’oro nero più semplice.
Le istanze e i permessi di ricerca vengono poi valutati secondo un procedimento unico che coinvolge i diversi soggetti interessati. Se l’area in questione è su terra oltre lo Stato vengono coinvolti anche gli Enti locali (Regioni, Province e Comuni), mentre se il permesso è per eseguire ricerche sul sottofondo marino è previsto solo il parere da parte dello Stato e gli Enti locali sono esclusi dalle procedure, anche quando si tratta di aree a ridosso della costa, in cui un’attività di questo tipo modificherebbe non poco le attività economiche, turistiche e di altro tipo svolte dalle comunità che vivono sul mare.
Proprio la facilità delle procedure e il mancato coinvolgimento delle comunità locali sono, insieme ad un costo del barile che è tornato a livelli importanti (tra 75 e 80 dollari per barile), tra le cause principali della proliferazione delle istanze per i permessi di ricerca in mare. Richieste avanzate nella maggior parte dei casi, da imprese straniere come la Northern Petroleum (UK) e la Petroceltic Elsa, che da sole rappresentano circa il 50% delle istanze presentate negli ultimi due anni per un totale di 11mila kmq, che rischiano di essere ceduti in nome del petrolio e di una fantomatica indipendenza energetica, che di certo non si ottiene attraverso un rilancio dell’estrazione petrolifera in Italia, sa maggior ragione se a farla sono le imprese straniere.
Il gioco non vale la candela neanche dal punto di vista occupazionale. Le ultime stime di Assomineraria quantificano la rilevanza economica e occupazionale del settore estrattivo in Italia come segue: un risparmio di 100 miliardi di euro nelle importazioni di greggio dall’estero nei prossimi 25 anni e la creazione di 34mila posti di lavoro. Numeri che non reggono se confrontati con un investimento nel settore della green economy e delle rinnovabili. Anziché investire nella folle corsa all’oro nero e all’atomo si dovrebbe puntare con decisione sullo sviluppo di efficienza energetica e fonti pulite, un settore capace di creare solo in Italia dai 150 ai 200 mila posti di lavoro entro il 2020 e capace di traghettare il paese verso un’econoomia a basso tenore di carbonio, una trasformazione necessaria, visti gli obiettivi vincolanti degli accordi internazionali sui cambiamenti climatici, a partire da quello Europeo fissato per il 2020 (20% risparmio energetico, 20% produzione da fonti rinnovabili, 20% riduzione emissioni di CO2).
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