Diciotto anni fa, il 19 luglio del 1992, 57 giorni dopo quella di Capaci, avveniva la strage di via D’Amelio, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino. Palermo ricorderà quel giorno e le sue vittime questa sera, con una fiaccolata alla quale non parteciperà alcun esponente del governo, ma a cui andranno invece il presidente della Camera Gianfranco Fini, Maurizio Gasparri e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Due giorni fa, in via D’Amelio, sono state danneggiate da “mani ignote” le due statue commemorative per Falcone e Borsellino, mentre solo una decina di persone ha partecipato al presidio organizzato nel luogo dell’eccidio dall’associazione “19 luglio”, iniziativa che ha aperto, di fatto, la commemorazione e ieri, alla marcia delle “Agende rosse” ha preso parte meno di cento persone. Rita Borsellino ha dichiarato: “Registriamo l’indifferenza di tante istituzioni che non sono venute lo scorso anno a ricordare Paolo e che non verranno neppure oggi, forse perche’ hanno paura delle contestazioni”, mentre l’Italia dei Valori polemizza sull’assenza, soprattutto, del ministro della Giustizia Alfano. A proposito delle statue che raffigurano Paolo Borsellino e Giovanni Falcone danneggiate nei giorni scorsi e riparate, Rita Borsellino ha sottolineato: “E’ una dimostrazione di quanto Giovanni e Paolo facciano ancora paura se c’è chi si scaglia contro delle statue”. Su La Repubblica di oggi Attilio Bolzoni titola un suo pezzo sull’anniversario “La guerra del doppio Stato uno indaga, l’altro depista” e fa notare che a Palermo lo Stato (e con le poche presenze strettamente necessarie) rievoca il suo “eroe” e a Caltanissetta – cento chilometri verso il centro dell’isola – lo stesso Stato è sotto indagine perché un suo rappresentante (un funzionario degli apparati di sicurezza, una spia di alto rango) è sospettato di avere caricato l’esplosivo che ha fatto saltare in aria quello stesso “eroe”. E’ la normalità italiana, è la normalità che ci ha fatto sprofondare in un abisso sempre più profondo. Neanche un mese fa una commissione ministeriale ha negato l’ingresso nel programma di protezione a Gaspare Spatuzza, il sicario di Brancaccio che ha ricostruito nei dettagli la strage di via Mariano D’Amelio sbugiardando falsi pentiti e facendo emergere l’ipotesi concreta di depistaggi nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino. L’allora procuratore capo della repubblica di Marsala, il 20 luglio del 1988 (esattamente quattro anni prima di morire) lanciò un violentissimo atto di accusa sulle pagine di Repubblica e de L’Unità: “Lo Stato si è arreso, del pool antimafia sono rimaste solo macerie”; un grido di dolore per dare sostegno al suo amico Falcone, sempre più solo a Palermo. Oggi, meno di un quarto di secolo dopo, non esistono più neanche le grida, in una Nazione abituata ormai a tutto e disabituata al sacrificio e alla dirittura morale, che ha i politici che merita ed è amministrata da personaggi che la rappresentano degnamente nei suoi diffusi aspetti deteriori (arrivismo, nepotismi, affarismo e corruzione). Oggi si inaugura anche una settimana in cui si prospetta una nuova tornata di iscrizioni al registro degli indagati nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, l’associazione segreta sospettata di aver tentato di esercitare pressioni indebite ai massimi livelli istituzionali. Stando a fonti giudiziarie romane sentite dall’Ansa, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il sostituto Rodolfo Sabelli, titolari dell’indagine preliminare, si apprestano ad ampliare il raggio degli accertamenti, coinvolgendo – non come semplici testimoni – alcuni dei personaggi emersi dalle intercettazioni e dalle agende dei faccendieri Flavio Carboni e Pasquale Lombardi. Tra i personaggi eccellenti destinati, pare, a varcare l’ingresso di piazzale Clodio – ancora non è chiaro a quale titolo – ci sono, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, l’ex presidente della Corte di cassazione Vincenzo Carbone, il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, il presidente della corte di appello di Milano Alfonso Marra, il capo dell’ispettorato del dicastero della Giustizia Arcibaldo Miller e l’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone. Ieri il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha smentito la ridda di voci, circolate in questi giorni, su presunti contatti per eventuali governi tecnici o esecutivi di larghe intese ed affermato che “Il governo Berlusconi è forte e durerà per tutta la legislatura”, ma, su Repubblica, parlando della P3, ha dovuto anche ammettere che “non si tratta solo di una mela marcia”, ma che “è venuta fuori una cassetta di mele marce”. Il ministro ha tirato fuori la “questione morale” ed affermato che “è una questione generale, non del centrodestra» – perché – “troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline per gli affari”. “Il presidente del Consiglio non ha alternative: o si rassegna alla politica responsabile o va a casa” ha scritto pochi giorni fa Giuliano Ferrara sul “Il Foglio”, ma non ci pare di notare che il suo ammonimento sia stato minimamente recepito. Questa sera sulla terrazza del Duomo di Milano ci saranno sia Charles Aznavour sia Silvio Berlusconi, ma, nonostante la passione del presidente del Consiglio per la musica francese, ad esibirsi come cantante, per un prezzo di 2.000 euro a biglietto, sarà solo il francese, mente Berlusconi riceverà, con Don Verzè, in occasione dei 150 anni della Provincia, il premio “Grande Milano”. Lo spirito dell’iniziativa è encomiabile, poiché servirà soprattutto a raccogliere fondi per i restauri della chiesa più importante di Milano, che costa 15 milioni di euro l’anno, suddivisi fra i costi della pulitura e della sostituzione dei marmi di Candoglia e di più di 3.000 statue (sette-otto milioni di euro), del personale (i 140 dipendenti) e delle spese generali. Ciò che ci sorprende è considerare che in mezzo a tanti problemi da risolvere, nel Pdl, nel governo, nello Stato, Berlusconi trovi il tempo per ricevere premi. Ma, forse, preferisce più partecipare a questo tipo di iniziative, che correre di qua e di là per spegnere vari principi di incendio che minacciano di bruciare un edificio politico considerato indistruttibile l’indomani delle elezioni 2008, con un partito che è ormai un “condominio” diviso fra una ventina di fondazioni che si dicono sorelle, ma si guardano in cagnesco e si preoccupano di tutto tranne del governo e della compattezza della coalizione e le crescenti turbolenze giudiziarie che non promettono molto di buono. A ciò si aggiungano i problemi sul ddl intercettazioni , vero e proprio percorso ad ostacoli anche dentro al suo stesso partito, difeso quasi ormai da lui solo, che dichiara ai Promotori delle libertà: “Ridaremo agli italiani la libertà di usare il telefono senza correre il rischio di veder pubblicate le proprie vicende private. Il governo lavora bene”. Due giorni fa, il premier aveva stoppato bruscamente il ministro dell’Agricoltura, Giancarlo Galan, che avrebbe voluto sollevare la questione delle “quote latte” al Consiglio dei Ministri. “Ne parlerò con Bossi tra qualche minuto”, ha tagliato corto il premier. E così è stato. Nel faccia a faccia con il Senatur, Berlusconi ha spiegato due cose: la prima è che non ha gradito lo smarcamento del Carroccio nelle ultime vicende che hanno investito la maggioranza (a cominciare dal “caso Scajola” per passare a Brancher e finire con Cosentino), o il “veto” nei confronti della trattativa avviata con l’Udc. Soprattutto non ha gradito il colloquio (o telefonata) tra Bossi ed il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Pare che Bossi abbia garantito ai suoi ancora l’appoggio a Berlusconi 8ma fino a quando?) e, ancora e più importante,alla supposta tregua con la Lega, Berlusconi non ha aggiunto quella con Fini. Italo Bocchino (ormai vero e proprio panzer dell’area finiana), pochi giorni fa a detto al Secolo XIX “Berlusconi è immobile, ed occorre un colpo d’ala sia al governo che al partito. Il granitico alleato della Lega lo ha abbandonato in un attimo nei momenti di difficoltà. Sarebbe bene che il premier non desse retta ai falchi, ma ascoltasse gente come Letta, Confalonieri o Ferrara”. Tutto questo crea più di una preoccupazione e, allora, meglio una serata distensiva e fresca sugli spalti dello splendido Duomo, con affianco colui che gli ha promesso la quasi immortalità e ai piedi un pubblico osannante.
Carlo Di Stanislao
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