Il fuoco è aperto dal suo ex pretoriano, ora in campo avverso, La Russa, Ministro della Difesa, quindi adatto ai conflitti, secondo il quale il Presidente della Camera, dovrebbe lasciare la carica istituzionale ed entrare nell’esecutivo, smettendo il ruolo ormai insopportabile di “bastian contrario”. Dopo i suoi mortai, gli obici del sottosegretario Montavano, che esige un chiarimento il giorno dopo la richiesta di sanzioni disciplinari di Fabio Granata, mentre il finiano Briguglio replica che si tratta di una “lettura forzata delle parole di Granata”, il quale, in qualità di vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, aveva parlato di “inopinata negazione da parte della Commissione ministeriale presieduta da Alfredo Mantovano del regime di protezione per Spatuzza”; facendo scattare la reazione di Mantovano prima (dal convegno di Orvieto dei circoli “Nuova Italia” ) e degli ex di An poi, con il Ministro della Difesa in testa. Si associa anche Gianni Alemanno, che dichiara: “Mi duole dirlo, ma credo che sia tempo che Granata vada a farsi un giro fuori”. È pronta e secca la controffensiva di Gianfranco Fini che, durante la registrazione di “Porta a Porta”, fa capire ai suoi ex-colonnelli che lui non si lascia intimidire, né tacitare, né ammansire con la prospettiva di una entrata nel governo. Ricorda poi a tutti di non essere presidente della Camera “in ragione di un concorso vinto o di un cadeau del presidente del Consiglio, ma “per una storia politica che rivendico, che è quella di una destra senza bava alla bocca”. Insomma lui non ha nessuna intenzione di dimettersi e dice di nuovo che: “finché sarò presidente, difenderò le prerogative del Parlamento “. Un intervento a tutto campo quello di Fini, tornato in tv per spiegare innanzitutto che quello con Berlusconi è un “sereno confronto” più che una “tregua armata” e per ribadire di non essere affatto pentito di aver cofondato il Pdl, un partito che tuttavia auspicava “diverso da come è oggi”. E oggi parte l’attacco vero, quello pesante con le truppe d’assalto capeggiate da Feltri, un attacco che ricorda il caso Boffo e paventa dossier a luci rosse contro il Presidente della Camera, reo di essere con Colle e contro Berlusconi e le sue scelte. Il direttore del Giornale cita un dossier contro il presidente della Camera e contro uomini a lui vicini in merito a incontri con squillo in sedi istituzionali. Il “fondo” è intitolato “Il presidente Fini e la strategia del suicidio lento”, poi un secondo titolo: “Ultima chiamata per Fini: o cambia rotta o lascia il Pdl”. Immediata la reazione di una finiana autentica come Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia ma anche legale del capo di Montecitorio: “Inserire in un articolo che si riferisce a vicende politiche e al presidente Gianfranco Fini una allusione generica a un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse che riguarderebbero personaggi di Alleanza Nazionale, è un fatto gravissimo che lede la reputazione del Presidente della Camera dei Deputati. Valuteremo quali iniziative assumere in sede giudiziaria”; con piccata controreplica di Feltri il quale scrive, dimentico del caso Boffo e delle sue tardive quanto necessarie ritrattazioni, con coda fra le gambe: “l’importante non è fare una querela, ma vincerla. E in questo caso sarà dura. Molto dura”. In tutta questa vicenda Capezzoni (e come ti sbagli) difende Feltri provocando anche le ire di La Russa (a tutto c’è un limite); mentre in un articolo che appare sul web magazine della Fondazione Farefuturo, i fedelissimi di Fini scrivono: “Ci aspettiamo che gli stessi che un giorno sì, l’altro pure, mattina e pomeriggio, si divertono a far le pulci al presidente della Camera, esprimano uguale preoccupazione e mobilitazione contro l’ennesima sparata di Umberto Bossi” che pretende di far fuori Fabio Granata. Come riferisce una allora stagista del Il Tempo, già nel 2005, in una caffetteria romana in Piazza di Pietra, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli, ragionavano su un colpo di mano e di Fini dicevano: “E’ malato, non vedete come è dimagrito, gli tremano le mani. Non possiamo farlo trattare con Berlusconi sul partito unico. Non è capace!”. E ancora: “La vera questione è capire chi è Fini oggi. Dobbiamo andare da lui e dirgli: svegliati! Se serve prendiamolo a schiaffi, ma scuotiamolo”. I giornali di allora spettegolarono sulle delusioni d’amore di Fini, già separato da Daniela Di Sotto e non ancora congiunto a Elisabetta Tulliani, mentre in un libro uscito da pochi mesi (La conversione di Fini, Vallecchi editore), Salvatore Merlo sostiene che Fini disse ai pochi rimasti al suo fianco: Per coerenza dovrebbero dimettersi”. Poi, ma questa è cronaca, sottrasse al trio le cariche nel partito e azzerò tutte le correnti, in quanto correnti distruttive, “mentre la sua attuale è costruttiva”. E’ evidente che Fini fa paura a tanti, dentro e fuori dal suo ex partito ed è evidente che sia un abile manovratore, un osso duro da spolpare, una volpe della politica molto difficile da infinocchiare o mette all’angolo e che, fra l’altro, contrariamente alle convinzioni di Berlusconi, è cresciuto nel gradimento popolare sino ad un recente 12%. Il vero problema di Fini, l’unico autentico pericolo per lui, un altrettanto valido Rommel sul piano politico, è e resta Umberto Bossi, con il quale, da sempre, è alta l’antipatia. L’ultimo affondo è di un mese fa, quando la terza carica dello Stato, rispondendo sul sito di Generazione Italia alla lettera di Stefano Basilico, giovane iscritto lombardo dell’associazione guidata da Italo Bocchino, uno dei fedelissimi del cofondatore del Pdl, disse: “la Padania non esiste, c’è solo la nostra Italia”. Dopo questo, mentre prima oscillava fra offerte di ramoscelli d’ulivo e lotta aperta, Bossi ha optato decisamente per la seconda via. Questo però non basta a Berlusconi, il quale sa che di Bossi può fidarsi sino ad un certo punto. Il Cavaliere, viene riferito, si sente quasi come un leone in gabbia, sconcertato per l’irriverenza e l’irriconoscenza della terza carica dello Stato e preoccupato per alcune affermazioni di Bossi, che ha detto “vigileremo”. “Fini vuole minare la mia leadership e l’immagine del governo”, pare abbia detto il Cavaliere telefono, invitando Gianni Letta a fermarsi nella ricerca di una mediazione, anche perché teme che all’orizzonte si profili un nuovo braccio di ferro, convinto che Fini si appresti ad aprire un nuovo fronte e, dopo la battaglia sulla legalità, voglia andare all’attacco del Mezzogiorno;. Tema caldo su cui le sue eventuali controdichiarazioni o scontenteranno i meridionali o saranno indigeste alla Lega. E di questo non ha bisogno mentre il gradimento degli italiani va a picco, i fedeli si defilano e lui è sempre più accerchiato e solo. Il Cavaliere sa che oggi Bossi e Fini sono nemici, ma possono cambiare idea ed allearsi, come accadde nell’ottobre 2009, poco prima che la sentenza sul Lodo Alfano provocasse il sisma, prima che d’un colpo il Quirinale, la Consulta e palazzo Chigi finissero inghiottiti nella voragine. Il logoramento a cui è sottoposto rischia di schiantarlo ed il Cavaliere sa che non può contare su nessun invalicabile vallo.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento