Le origini della campana si perdono nell’antichità ma, secondo la tradizione, fu San Paolino, vescovo di Nola, a introdurre le campane nelle funzioni religiose verso il 400 d. C. (Nola si trova in Campania, il che spiega l’origine stessa della parola nella lingua italiana: “campana” infatti, deriva dal latino aera o vasa campana, letteralmente “vasi di bronzo della Campania”).Prima di allora i sacerdoti probabilmente chiamavano i fedeli alla preghiera percuotendo pezzi di legno o metallo con un bastone. Per tutto il medioevo, i fabbricanti di campane furono degli itineranti, che si fermavano nei luoghi in cui stava sorgendo una nuova chiesa per fondere le loro campane all’aperto, all’ombra del campanile. Oggi in Europa esistono circa una decina di fonderie, spesso piccole aziende a conduzione familiare che si sono tramandate i loro segreti di generazione in generazione. Le campane delle chiese sono di bronzo, una lega formata da 78 parti di rame rosso e 22 di stagno bianco inventata circa 5000 anni fa, robusta, facilmente fusibile e molto sonora. Una campana di bronzo perfetta mantiene il suono per uno o due minuti. E’ lo stagno che rende squillante il rame di per sé sordo ma questo metallo, deve essere accuratamente dosato perché una quantità eccessiva renderebbe fragile la lega.
Come esecutrice musicale la campana è una fantastica virtuosa. Il tono dipende da molti fattori, fra cui il profilo, lo spessore e la composizione del bronzo. Alcuni fonditori moderni danno alle loro campane un maggior spessore intorno al bordo per ottenere una nota più acuta di quella desiderata; poi smorzano la tonalità raschiando via il metallo eccedente dall’interno della campana finita. Altri – e soprattutto i fonditori italiani, particolarmente sensibili – disapprovano questo metodo perché convinti che il tono ne risulti irreparabilmente danneggiato. Contando sulla propria esperienza e intuito, questi artisti cercano di dare alle loro campane un tono perfetto sin dall’inizio. In ogni campana la nota fondamentale è accompagnata da un “ronzio” più basso e da numerose note alte emesse dallo stesso colpo di battaglio. E’ da questa consonanza che si ottiene il timbro della campana. Una semplice formula determina il rapporto fra dimensione e tonalità. Per ottenere la stessa nota, ma più bassa di un’ottava, basta raddoppiare il diametro della campana e aumentarne l’altezza e il peso in proporzione. Tuttavia, non esistono due campane con lo stesso identico suono. Se c’è armonia all’interno della campana, l’effetto globale può essere d’una bellezza senza pari. “Ha una dolcissima voce” dicono con aria da intenditori gli appassionati delle campane.
Poiché il tono profondo e sonoro dà gioia all’orecchio – e le dimensioni conferiscono prestigio – ci si è sempre orientati verso la costruzione di campane gigantesche.
La fabbricazione di una campana è un procedimento complicato e pieno di suspense. Innanzitutto si costruisce, con la guida di una sagoma di legno, una struttura in mattoni che corrisponde esattamente all’interno della campana, l’anima, di forma tronco conica. Sull’anima si sovrappongono strati di argilla fino a formare lo spessore voluto. L’argilla usata è di una qualità speciale in quanto deve resistere all’azione corrosiva del metallo liquido durante la colata. Sulla superficie levigata ottenuta con la sagoma, si applicano in cera tutti i fregi, le iscrizioni, gli stemmi e le figure che decoreranno la falsa campana. L’ultima fase di formatura consiste nel preparare il mantello che si ottiene sovrapponendo strati successivi di argilla. L’argilla viene applicata a pennello in strati sottili e uniformi lasciando essiccare tra un’applicazione e l’altra. L’essiccazione si ottiene mediante carboni accesi, sistemati all’interno dell’anima di mattoni, che vi rimangono fino all’approntamento del mantello. Durante questa fase di essiccazione lo strato di cera si scioglie lentamente e viene assorbito completamente dall’argilla (procedimento a cera persa). Terminata la formatura, “il mantello” si solleva e la “falsa campana” viene distrutta fino a liberare l’ “anima”. Nel mantello sono naturalmente rimaste impresse le iscrizioni, i fregi e le immagini in negativo. Si ricolloca poi il mantello sull’anima facendo rimanere libero lo spazio prima occupato dalla falsa campana e che verrà riempito dal metallo liquido durante la colata.
La fossa dove vengono colate le forme viene completamente riempita di terra, in modo da evitare lo spostamento del mantello, causato dalla spinta metallostatica. Si procede così alla realizzazione della campana colando il bronzo a 1.150 gradi centigradi nello spazio libero tra mantello e anima. Per la fusione si usano forni a riverbero costruiti con mattoni refrattari; il combustibile adottato è in legno di rovere secca, come centinaia di anni fa, questo per evitare la contaminazione del metallo fuso da parte dei gas, che si sprigionerebbero impiegando altri combustibili. Il ciclo di lavorazione di una campana varia da trenta a novanta giorni ed anche più. Il giorno in cui avviene la colata è un giorno importante; possono, infatti, verificarsi degli incidenti che pregiudicherebbero tutto il lavoro: nello stampo può aprirsi una crepa; lo stagno può consumarsi al calore; impurità possono dar luogo a una bolla. La cosa più importante è calcolare i tempi alla frazione di secondo. Le porte dell’officina vengono chiuse e il silenzio è rotto solo da qualche ordine: “Alza la siviera! Inclinala ancora un po’…così!” Il fluido incandescente viene versato in fretta nello stampo. A operazione compiuta, si sentono sospiri di sollievo. Quando il metallo si è raffreddato, la nuova campana viene liberata con molta delicatezza dalla sua prigione per essere ammirata da tutti.
Secoli fa si scoprì che campane di dimensioni diverse potevano suonare motivi differenti– come bicchieri riempiti d’acqua a livelli diversi “suonano” in modo differente quando si passa un dito bagnato sull’orlo – e allora nacquero i “carillon”, sistemi di campane fisse, ognuna delle quali produce una nota specifica, che vengono suonati mediante martelletti azionati da una tastiera. In Italia, dove esistono ancora diverse società o unioni di campanari (quella di Santa Anastasia, a Verona, risale al 1776), si organizzano addirittura originalissime gare – concerto di campane. Squadre di virtuosi del bronzo, in primavera e in estate, si avvicendano baldanzose all’interno dei campanili, tese a eseguire alla perfezione il “programma” stabilito in precedenza dalle autorità parrocchiali: in realtà, più che la conquista del premio – di norma una coppa oppure una medaglia di non grande valore – questa gente sembra impegnata a tenere viva un’antica e preziosa tradizione.
Le campane, in condizioni normali, durano anche alcuni secoli: una delle cinque campane della chiesa di Santa Maria della Scala a Verona, da quando fu installata nel 1444, non ha mai smesso di funzionare. Alcune campane, poi, hanno mostrato di possedere capacità di sopravvivenza quasi miracolose: quando nel 1902 il vecchio campanile della basilica di San Marco a Venezia – forse a causa della “età avanzata” – improvvisamente crollò, il suo campanone del peso di oltre tre tonnellate e mezzo fu trovato intatto in mezzo alle macerie.
Le campane hanno però una nemica mortale: la guerra. Fino a un secolo fa i cannoni erano fatti per lo più di bronzo, ed era molto diffusa l’abitudine di fondere le campane delle chiese per costruirli. Durante la rivoluzione francese a ogni parrocchia venne concessa una sola campana; le altre – comprese 12 splendide campane della cattedrale di Notre-Dame a Parigi – vennero fuse e utilizzate sui campi di battaglia. Alcune campane “morirono goccia a goccia” nel corso di violentissimi incendi. In Italia circa 13.000 campane furono confiscate per il loro metallo o distrutte in azioni durante la sola seconda guerra mondiale.
Se riesce a sopravvivere alle ingiurie dell’uomo, la campana è però destinata a morire di morte naturale: il battaglio, con il tempo, può incrinarla, rovinandone la voce. Non c’è rimedio: le campane, infatti, non si possono riparare con successo, se non in rarissimi casi. Il loro destino a quel punto è un’altra fusione. Il metallo delle vecchie campane è ancora buono, e si dice che il bronzo antico abbia un suono più gradevole del nuovo. La nuova colata conserverà l’”anima” della vecchia campana, qualcosa cui i fedeli non amano rinunciare.
La campana è l’anima di un’intera comunità e di questo ne fanno tesoro i forcellani.
Forcella è una comunità formata dai tre insediamenti di Santi, Casaline e Menzano, tutti situati nell’omonima valle del Rio Forcella, tributaria dell’Aterno, dove sfocia nella piana di Amiterno.
Il toponimo è formalmente trasparente, trattandosi di un diminutivo del latino furca. Se per alcuni tale appellativo indica il valico che mette in comunicazione il bacino dell’Aterno con la piana di Cascina e, quindi, con la via Salaria e il reatino, appare però più probabile che esso si riferisca alla forca, ossia alla biforcazione formata dai due rami della valle che, proprio fra le tre ville di Forcella si uniscono. Prima dell’epoca normanno-sveva, tale designazione ha solo valore toponimico, ed è quindi relativo a un abitato ancora sparso, mentre la prima menzione come castrum si ha nel sec. XII (…Forcellam…) ma è probabile che questo termine avesse solo valore amministrativo, non corrispondendo a un effettivo castello. Viceversa, nello stesso periodo è menzionato il castello di Cesura, sorto su una cresta, in posizione dominante dell’intera vallata. Entrambi questi castra contribuirono alla fondazione della città dell’Aquila, pur essendo ai confini col contado reatino; il castello di Cesura, poi, venne distrutto nel sec. XIV e i locali si insediarono stabilmente in città.
Il Locale di Forcella Intra Moenia, nel Quarto di San Pietro, era posto nella direttrice principale di aria che univa Porta Barete con Porta Bazzano e la parallela Via Forcella, posta in prosecuzione di Via Barete, sino alla Piazza Civica della Città.
Nel 1348 L’Aquila fu devastata dalla peste e dilaniata dalle carestie e per completare il quadro tragico nel 1349 subì un terribile terremoto.
Nel 1350 Papa Clemente VI, pur restando ad Avignone, inviando al suo posto il Legato Cardinale Annibaldo, indisse il Giubileo.
Una grande folla di pellegrini di ogni ceto sociale giunse a Roma, tra cui il Petrarca, che riportò in versi lo stato di abbandono che caratterizzava la Città e di degrado nel caso delle sue Basiliche.
Le tre ville di Forcella Extra Moenia hanno sempre mantenuto la loro individualità. Quella che oggi è semplicemente Santi, viene chiamata, ancora nel sec. XVI, Villa San Donato, dall’omonima parrocchiale (dedicata anche a Sant’Angelo).
Durante L’Anno Santo si provvide a riparare i danni del devastante sciame sismico del 1349 che causò più di 800 vittime e la polvere che si alzò come ricordano Francesco e Antonio Ranieri nel loro volume in fase di stesura, oscurò la luce del sole. Venne riparata anche la torre campanaria dotandola, nell’occasione, di una delle più grandi e belle campane in bronzo di tutto il comprensorio aquilano in onore all’Assunta, per intercessione dell’Arciprete Tuccio Di Tommaso dell’Arcipretura di San Donato. L’avvenimento è ricordato con l’incisore della data sulla campana, arricchita tra l’altro di pregevoli rilievi con le effigi di San Donato da una parte e della Madonna dall’altro.
Della Chiesa di San Donato, più volte restaurata, non rimane nulla di anteriore al sec. XVII, in quanto a causa di un altro terremoto nel 1715 fu soggetta a una vera e propria trasformazione.
La campana maggiore, emblema della Forcella Extra Moenia, nel 1950 si ruppe e ammutolì. Un opprimente silenzio cadde allora sull’intera vallata.
Si provvide così a scenderla a terra con adeguati argani e a trasportarla alla Fonderia di Torre dei Passeri, per rifonderla e farla tornare più bella di prima.
Quando la campana ritornò a Santi, fu accolta con gioia dai devoti forcellani.
Il Parroco Don Vittorio Tomassetti, dopo averla affidata simbolicamente alle madrine Giuditta Gianneramo e Liliana Di Mario, la benedisse invitando gli incaricati a innalzarla nuovamente sulla Torre Campanaria.
E’ risaputo che i Forcellani hanno indelebilmente nella mente e nel cuore la Festa Patronale.
Le Feste Patronali trovano origine nelle antiche leggende, sacre o profane e il Santo è l’identificazione dell’identità collettiva: è il tramite tra l’Umano e il Divino.
La campana richiama i Forcellani a partecipare alla messa in onore del Patrono nella maestosa Chiesa Parrocchiale.
Per tale ragione, quest’anno la Rio Forcella S.p.A. ha voluto donare a San Donato una campana, la quarta del campanile dopo di quella dedicata a San Giorgio, a Sant’Emidio e la maggiore dell’Assunta, come ringraziamento per aver salvato la sua terra e il suo popolo dal forte sciame sismico che si è abbattuto la notte del 6 aprile 2009 sull’Aquilano. Alla conclusione della messa domenicale i fedeli hanno assistito alla benedizione della campana elargita rispettiv
amente da Don Daniele, Parroco della Pieve di San Donato e da Don Luigi Maria Epicoco, Vicario Episcopale per i Beni Culturali alla presenza della Famiglia Cicchetti e Cuomo del San Donato Golf e della Rio Forcella S.p.A., soci, forcellani e amici aquilani.
Il 6 agosto nella Chiesa Parrocchiale di San Donato, alle ore 19.oo, c’è stata una messa solenne presieduta da Sua Eccellenza Monsignor Giovanni Molinari, Arcivescovo Metropolita dell’Aquila con Rito di consacrazione del nuovo altare della Cappella Feriale di Sant’Antonio da Padova.
Durante l’Omelia, Don Giuseppe ha ripetuto ai fedeli il messaggio che Gesu’ Cristo ci ha lasciato nel suo Vangelo.”Siate il sale della Terra e la luce del Mondo.”.
Don Daniele parla del 2010 come “l’anno della rinascita” per Santi con e in San Donato.
San Donato martire, Vescovo di Arezzo, fu vittima della persecuzione di Roma contro i cristiani nel 352 d.C..
Il 7 agosto i Forcellani ricordano il loro Santo Protettore nella Chiesa Parrocchiale.
C’è una sorta di gemellaggio tra i Forcellani e gli Scoppitani nella devozione per il Santo e ogni anno questi ultimi scavalcano la montagna e giungono a valle per assistere alla messa.
C’erano due bambini che accompagnati dalle loro rispettive madri venivano sempre a piedi a Santi per devozione a San Donato: Don Giacomo di Sibio e Don Giuseppe Molinari.Entrambi hanno seguito la Strada del Signore ed entrambi hanno sempre onorato il Patrono presiedendo con umiltà la funzione religiosa a lui dedicata.
Alla conclusione della celebrazione eucaristica ha avuto luogo il nuovo concerto campanario.
Francesca Ranieri
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