Bush aveva dichiarato la fine dei combattimenti in Iraq il primo maggio del 2003, in un famoso discorso, quello della “Mission Accomplished” a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California. In realtà i combattimenti sono durati molto più a lungo, con oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene, e tensioni fortissime nel biennio 2006-07. Si è dovuto attendere il cosiddetto “surge” del generale americano David Petraeus, nel 2007, per iniziare a vedere una progressiva stabilizzazione della situazione nel paese. Adesso tornano a casa, con dieci giorni d’anticipo, ma anche con la sensazione, come in molti hanno scritto, di aver concluso una missione fallita, costata la vita a 4.400 di loro e con l’uccisione di 100.000 nemici, che ha lasciato, di fatto, le cose immodificate dopo 7 anni e mezzo di guerra. Con una lettera datata 18 agosto, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama commenta la fine della missione di combattimento in Iraq: “Oggi, ho il piacere di annunciare che grazie a un servizio straordinario delle nostre truppe e dei nostri civili in Iraq, la nostra missione di combattimento si concluderà entro questo mese e che stiamo per ultimare un ritiro sostanziale delle nostre truppe”. Resteranno sul campo i 50.000 uomini, che dal primo di settembre saranno limitati per lo più a compiti di addestramento delle nuove forze di sicurezza irachene. L’altro ieri sera i media americani hanno dato grande alla partenza della Quarta Stryker Brigade della Seconda Divisione di fanteria, con le telecamere che l’hanno ripresa mentre attraversava il confine con il Kuwait. Era l’ultima grande unità combattente a lasciare il paese, invaso per volontà di Bush figlio e con l’inganno di armi di sterminio mai trovate e l’idea, assurda, di una guerra a scopo preventivo. Ora, a darsi da fare in una nazione in guerra civile fra laici e religiosi, sciiti e sunniti, con un governo ancora non fatto a sei mesi dalle elezioni saranno i cinquantamila militari “non combattenti”, impegnati a consigliare e ad addestrare l’esercito e la polizia irachena. Ma a questi si aggiungeranno migliaia di nuovi contractors, di civili forniti da società private pagate dal Dipartimento di Stato o dal Pentagono, incaricati di assicurare i vari servizi paramilitari: dal funzionamento di radar e detector all’assistenza e protezione ai grandi cantieri, in particolare dei pozzi petroliferi, ai quali fanno già la guardia. Oltre ad abbattere Saddam Hussein e ad annientare le armi di distruzioni di massa rivelatesi inesistenti, la guerra americana voleva fondare una democrazia, senza tener conto (come sta accadendo in Afganistan) che una democrazia ha bisogno di uno Stato su cui basarsi e questo stato non c’ ancora sulle rive del Tigri e dell’Eufrate, minacciate dalla’ombra lunga di paesi bellicosi ed ostili come il vicinissimo Iran. Il primo di settembre termina formalmente la missione “Iraqi Freedom”, iniziata con la guerra del marzo 2003, e comincia la “New Dawn”, la nuova alba, che nelle speranze dei suoi fautori dovrebbe traghettare il Paese verso la normalizzazione, che però appare davvero molto lontana. L’Italia in questa guerra sanguinosa e sporca, costruita su un letto di petrolio e sul nazioklasmo dell’America più reazionaria e retriva, ha perso 25 uomini. Bruciano ancora il massacro di Nassiriya e la morte, peraltro ancora non del tutto chiarita, di Giuliano Gallipoli, a causa del “fuoco amico”. L’Iraq è un paese distrutto, pervaso dalle macerie, sprofondato in ferite ancora aperte che hanno prodotto centinaia di migliaia di morti civili. Immerso in una dimensione conflittuale interna ma anche di resistenza contro gli occupanti, con un lungo, infinito elenco di sacchi neri tornati negli Usa e negli altri paesi alleati. Una guerra ingiusta, illegale e, soprattutto inutile, che lascia morti sul campo ed un campo ancora più micidiale, incerto e devastato. Un paese in cui, dopo il fuoco devastatore e dopo il voto sul federalismo, un gruppo sunnita vicino ad Al Qaeda ha proclamato l’istituzione di uno stato islamico in otto province irachene, compresa la capitale. Un paese in cui gruppi di miliziani hanno appeso, in diverse città, volantini inneggianti alla Sharia, la legge islamica, minacciosi in particolare verso le donne. Un paese in cui una ragazza di 22 anni è stata lapidata davanti ai concittadini inerti, pochi giorni prima dal ritiro USA. Questo è l’Iraq di oggi, un luogo dove si uccidono innocenti per nulla, una contabilità dell’orrore che i media faticano a tenere e che spinge sempre più iracheni a lasciare le proprie case, quando non il Paese. Recentemente si è appreso che il comando della Coalizione ha modificato le categorie delle vittime di violenza per far figurare cifre inferiori a quelle reali, ma all’opposto, c’è stata anche una prestigiosa rivista medica che ha condotto una ricerca dalla quale ha concluso che le vittime della guerra in Iraq potrebbero essere oltre 600 mila.
Carlo Di Stanislao
Non userei l’avverbio MESTAMENTE perché si leggerebbe la tristezza di una cosa non riuscita ed invece non è così. Userei FINALMENTE (sempreché la cosa sia davvero definitiva visto che rimarranno o ne verranno 50000 di ameriacani in Iraq per missione culturale). Vorrei fare una considerazione: Saddam è vissuto in uno stato Iraq creato dopo la II Guerra Mondiale SU MODELLI INGLESE E AMERICANI (costituzione, corpus di leggi civili etc.) e dunque su un’etica protestante occidentale più o meno adattata alla realtà culturale in gran parte musulmana. Poi è stato giudicato ingombrante e tolto di mezzo col nostro “venerando” aiuto a causa degli interessi ENI nella zona nord. Noi abbiamo dato nomi a strade e eretto monumenti ai nostri soldati morti in cosiddetti “attentati” (ma non sono anche questi atti di guerra?) ed costoro erano in pieno assetto di guerra, ma qanti iracheni sono morti senza nemmeno essere da noi nominati o ricordati? E che ci stiamo a fare lì?