La via cinese alle arti popolari

Scrive oggi su Il Giornale Maurizio Carbone,  che poiché è la sofferenza a generare buona arte, non meraviglia che la Cina, negli ultimi decenni, abbia prodotto la migliore arte popolare a livello mondiale. Ma forse le cose sono più complesse. Sono passati solo 20 anni da quanto Deng Xiao Ping aprì le porte all’occidente e […]

Scrive oggi su Il Giornale Maurizio Carbone,  che poiché è la sofferenza a generare buona arte, non meraviglia che la Cina, negli ultimi decenni, abbia prodotto la migliore arte popolare a livello mondiale. Ma forse le cose sono più complesse. Sono passati solo 20 anni da quanto Deng Xiao Ping aprì le porte all’occidente e molte cose sono rapidamente cambiate, da allora, nella favolosa terra dei Qing e di Marco Polo. Come ci dice Cindia Post, dalla fine degli ani ’80 si sono moltiplicate le band rock nel Paese del Drago ed oggi se ne contano a decine in ogni parte del Paese, con vari locali dedicati a concerti dal vivo a Pechino, Chengdu, Shanghai e altrove. Le band sono partite copiando il rock occidentale, ma poi, negli ultimi cinque anni, hanno trovato una originale via cinese,  per questa modalità musicale, innovativa e di protesta. In una intevista sul Corriere di maggio scorso, una delle star cinesi di maggior richiamo, Sa Ding Ding, ribattezzata “la Björk d’ Asia”, dichiarava che dalla pura imitazione di Nine Inch Nails, Chemical Brothers e Radiohead, oggi il rock cinese ha una sua originale autonomia. A luglio, prima a Roma e poi all’Arena di Verona, la rocker di etnia han lo ha dimostrato, cantando il suo rock fatto di sanscrito e lingua Sa: il dialetto antico tibetano e  presentando, per il Jazzin’ Festival, la sua seconda “collection” Harmony, giunta dopo due anni dal fulminante esordio di “Alive”. Ieri, poi, con servizio ed un video,  Rainews 24, ci ha parlato del  primo grande festival rock della Cina (vedi:  http://www.rainews24.it/it/canale-tv.php?id=20145), tanto simile, in apparenza a Woodstock, ma con sonorità  e idee affatto originali. Gli artisti intervistati hanno parlato di una via cinese anche nel rock, che tenga conto delle loro tradizioni e del modo particolare di guardare al mondo ed ai suoi problemi, mescolando modernismo e cofuncianesimo, trasgressione e taoismo, buddismo ed ecologia,  con la necessità di crescita di un paese sino a ieri poverissimo. Simbolo di questa via (in cinese, tao, termine famoso ormai in tutto il globo), è  Zuoxiao Zuzhou (左小祖咒), che in 17 anni di attività  ha prodotto dieci album, pubblicato un romanzo best-seller, trovando anche il tempo di occuparsi di fotografia. Non c’è che dire: nella musica popolare e nell’arte contemporanea in genere, la Cina di oggi non solo è protagonista, ma sa davvero dire la sua. Ed è sempre stato così in Cina: ogni novità è stata dapprima studiata, poi appresa, quindi “cinesizzata” e resa diversa, originale e da esportazione. In questa Cina che ricorda il Visconte Dimezzato di Calvino, per metà ricchissima ed avanzata e per l’altra metà povera e tradizionale, il rock diventa il modo per cantare i giorni difficili e le speranze future di una società che si trasforma, per restare sempre uguale a se stessa. E della crescita cinese occorre tener conto anche in altri ambiti e non solo economici. Il cinema, ad esempio,  può fornirci un illuminante paradigma. Non solo Zhang Yi Mou e Wong Kar-Wai, ma anche registi più commerciali sono identificati come il meglio nel panorama attuale. Ad esempio John Woo, che ha iniziato ad Hong Kong, passato negli USA e tornato in patria, a cui sarà attributo l’Oscar alla Carriera nella prossima mostra del cinema di Venezia (1-11 settembre), con presidenza di Quintin Tarantino. Wu Yu Sen, questo il suo vero nome, ha realizzato film in cui tradizione cinese e linguaggio spettacolare, si fondono in un equilibrio dinamico e narrativo perfetti. Nato a Canton, oggi Guangzhou, nel settembre 1946,  nel 1972, aiuta Chang Cheh e Li Pao Hsueh nella regia de Il drago si scatena e firma,  solo due anni dopo il suo film di debutto: Tie han rou qing (1974), nel quale sono già presenti tutti gli elementi del suo deflagrante cinema, che mescola melodramma, azione, commedia, western, padroneggiandoli con un’abilità unica e storica. Dopo una parentesi (fortunatissima e gloriosa) americana, con “La Battaglia dei tre regni” è tornato in Patria, realizzando il maggio incasso nella storia di quel cinema ed uno dei maggiori a livello mondiale. A Venezia Woo presenterà, fuori concorso Reign of Assassins (“Regno d’assassini”), firmato insieme a Chao Pin e interpretato da Michelle Yeoh, stella della diaspora cinese, pellicola del genere wuxia, ma con ingredienti orientali e occidentali, sapientemente mescolati. E Woo, come tutta la sua Cina,  non riposa sugli allori. Dopo All the Invisible Chiuderne (2006), fotografia della sofferenza infantile nel mondo, attraverso sette prospettive diverse, in sette paesi diversi (Italia, Africa, Serbia-Montenegro, America, Brasile), diretto con Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Kátia Lund, Jordan Scott, Ridley Scott e Stefano Veneruso e dopo il kolossal impossibile “La Battagli dei tre regni” (2008), è già alle prese con altri tre progetti (1949, Caliber Flying Tiger Heroes e Ninja gold), più uno da dirigere a quattro mani con Chao-Bin Su e il cui titolo provvisorio è Rain of Swords in a Pugilistic World . Il primo progetto a cui porrà mano, ci dice Holywoodreport, sarà Flying Tigers, in cui si avvarrà di produttori cinesi e americani e della tecnologia IMAX per spettacolarizzare le epiche battaglie aeree del generale Claire Lee Chennault, collaborando con la Creative Artists Agency per sfruttare al meglio il budget di 90 milioni di dollari. Ecco la via cinese verso un pop mai banale: tradizione e  modernità, ispirazione e capacità di reperire risorse, pragmatismo più poetico di quello americano, assieme ad una laboriosità artigianale, più che calvinista. Insomma, aveva ragione il buon, vecchio Leopardi, che sullo Zibaldone annotava: “perfetti, cioè cinesi”.

Carlo Di Stanislao

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