Michela Murgia, sarda di nascita e convinzione, autrice di ”Il mondo deve sapere”, diario tragicomico di un mese di lavoro che ha ispirato il film omonimo di Paolo Virzi’, ha vinto con Accabadora, la XLVIII edizione del Premio Campielo, presentata nella straordinaria cornice del Teatro La Fenice di Venezia da Bruno Vespa con Andrea Osvart e intervallato dalle esibizioni canore di Simone Cristicchi. A consegnare il prestigioso riconoscimento della letteratura, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria. Al secondo posto Antonio Pennacchi (vincitore dello Strega) con ”Canale Mussolini”, Gianrico Carofiglio, autore di ”Le perfezioni provvisorie”, Gad Lerner con ”Scintille” e Laura Pariani con ”Milano e’ una selva oscura’. Niente finale, invece, per Acciaio di Silvia Avallone, esordio promettente ma anche discontinuo e con molti lati in ombra. Con il termine femmina accabadora o più comunemente accabadora (s’accabadóra, lett. “colei che finisce”, probabilmente dallo spagnolo acabar, “finire”, “terminare”) nella Sardegna antica si soleva indicare una donna che uccideva persone anziane in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima, a richiedere questo servizio di eutanasia. Non c’è unanimità sulla storicità di queste figure, molti antropologi non ritengono infatti siano realmente esistite; in ogni caso si esclude che il fenomeno si sia sviluppato nell’intera Sardegna (avrebbe riguardato alcune subregioni come Marghine, Planargia e Gallura). Nel libro della Murgia (edito da Einaudi), perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, resta un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come “l’ultima”. Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. “Tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fili’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia”. Eppure c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell’accabadora, l’ultima madre. Alessandro Bucarelli, Medico Legale e antropologo criminale dell’ Università di Sassari ha studiato molto e scritto altrettanto sulle accabadoras. A modo loro queste donne conoscevano perfettamente l’ anatomia umana, erano “praticas”, levatrici curatrici e anche capaci di uccidere con metodo e precisione: “Ne parlano ovunque, non può essere un mito, una fantasia dovuta all’ isolamento. Gli ultimi episodi certificati che si conoscono sono due. Uno a Luras nel 1929 e uno Orgosolo nel 1952. A Luras, in Gallura, l’ ostetrica del paese accabbò un uomo di 70anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario.” Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la vecchia nerovestita, tra i meno vecchi c’ è chi come Egidiangela Sechi ha voluto approfondire sul campo. Ha dedicato una parte della propria tesi di laurea sull’eutanasia a mezzo di un giogo da buoi, questa pare fosse pratica usuale a Sindia, suo paese natale nel Nuorese: “avevo preparato un questionario sui rituali legati alla morte e l’avevo sottoposto a decine di donne anziane del posto, poi è saltata fuori a storia del giogo e ho dovuto ricominciare da capo inserendo una nuova domanda sulle accabadoras, tutte sapevano, ma non me ne avevano parlato semplicemente perché non glielo avevo chiesto”. All’inizio del secolo scorso, nel 1906, lo storico Calvisi aveva avuto modo in Bitti, di assistere alla conversazione intervenuta fra la madre di un bimbo morente e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un’accabadora, dato che la madre rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo. Da questo momento le attestazioni della presenza reale de s’accabadora aumentano notevolmente. A metà degli anni ’50 due dotti religiosi isolani, Padre Vassallo e il gesuita Licheri, non solamente credno nell’esistenza di questa enigmatica figura, ma se ne fanno accaniti oppositori, definendo la morte aiutata dalla mano de s’accabadora, niente po po di meno che peccato mortale. Invece nel libro della Murgia, l’accabdoras non è un’assassina, ma una sacerdotessa della buona morte,che agisce solo quando il moribondo, sofferente e stremato, non riuscisse da solo ad abbandonare la vita.
Carlo Di Stanislao
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