Conobbe Jean-Luc Godard e François Truffaut, che allora collaboravano al settimanale Arts di Jacques Laurent: nei primi anni Cinquanta il non-conformismo letterario si richiamava a Paul Morand e quello cinematografico a Sacha Guitry, che avevano entrambi patito l’epurazione postbellica. Negli anni Sessanta il vento sarebbe cambiato e dallo spirito del ’68 Chabrol, Truffaut e Godard avrebbero tratto un ulteriore rilancio. Perché un regista, quale che sia il regime, vuole soprattutto fare film. Nel 1957 firmò il manifesto della Nouvelle Vague: “Le Beau Serge” (che martedì 19 ottobre vedremo, con inzio alle 18, al Movieplex, in una rara copia della Cineteca de L’Aquila), grazie ad una piccola eredità lasciatagli da uno zio. Vinse a Locarno ed inaugurò un nuovo modo di fare cinema, aprendo la strada a Goddard, Truffaut, Resnais, Rohmer e Malle. Da allora, in 50 anni, ha realizzato un film l’anno, di qualità spesso alterna, tanto che fu considerato il meno dotato degli Autori del nuovo cinema francese. La sua carriera, lunga e prolifica, è stata segnata, quasi per intero, dalla fedeltà al genere poliziesco, reinterpreta in modo personale, privilegiando con costanza alcuni aspetti: l’analisi psicologica dei personaggi, l’attenzione per ambiti spesso ristretti alla dimensione del piccolo paese, la condizione borghese come condanna all’insoddisfazione, l’ambiguità morale che sta alla base dei comportamenti delittuosi. Fra i suoi film più memorabili: I cugini (1959, Orso d’oro al festival di Berlino), Donne facili (1960), Un affare di donne (1988), Madame Bovary (1991), Il buio nella mente (1995), Rien ne va plus (1997) e Grazie per la cioccolata (2000). Ma è anche il realizzatore (soggetto, sceneggiatura e regia) di film come La tigre ama la carne fresca, La tigre profumata alla dinamite, Marie Chantal contro il dr.Kha e Criminal Story,: così brutti da sembrare opere altrui. Così lo ricorda Marco Muller, direttore della Mostra del Cinema di Venezia, in una intervista a ADN Kronos, rilasciata il 12, giorno della scomparsa, a 80 anni precisi, di Chabrol: “Era un cineasta geniale e insolente e la sua insolenza era quella di tirare sempre fuori una verità del cinema che ha difeso fino all’ultimo con i suoi film e guardando e analizzando i film degli altri. L’avevamo invitato due volte come presidente della giuria a Venezia ma aveva sempre un film in lavorazione. Speravamo che venisse allora con il suo nuovo film. Il suo cinema e il suo sguardo ci mancavano gia’”. Claude Chabrol non vinse alcun leone d’oro alla Mostra di Venezia, ma è coi suoi film che Isabelle Huppert vi fu consacrata, dopo aver vinto con “Violette Nozière” il premio d’interpretazione a Cannes (1978). Nel 1988 la Mostra le attribuì la coppa Volpi per “Un affare di donne”; nel 1995 per “Il buio nella mente”. Nel 2005, sempre dalla Mostra, ebbe infine un “premio speciale per il complesso dell’opera”. Il suo cinema è stato libero, politico, prolisso, scomodo, ma senz’altro autentico e stimolante.
Carlo Di Stanislao
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