Sono tutti scontenti, anzi infuriati con Tarantino, che ha premiato l’ex fidanzata Sofia Coppola col Leone d’oro per Somewhere; il suo primo produttore Monte Hellman, per il quale è stato rispolverato il premio “speciale” all’intero catalogo e regalato due premi alla Ballata di Alex de la Iglesia: una sorta di suo clone spagnolo. Gli altri giurati sono stati annullati e lui, il grande fautore della contaminazione B-movie e pulp, ha fatto ciò che ha voluto. L’unico a ribellarsi (almeno in parte) Gabriele Salvatores, che ha fatto cambiare il regolamento, comunicandolo lui stesso a cerimonia finita: d’ora in poi si potranno accumulare riconoscimenti tranne che per il Leone d’oro. Tutti scontenti e soprattutto l’Italia, che certo non aveva capolavori in gara, ma al confronto di certi premi ci poteva stare per un attore o per una sceneggiatura. Sono passati 12 anni dall’ultimo Leone d’oro italiano (Gianni Amelio) e stavolta ci si sperava, anche perché il nostro cinema era presente in massa, 41 titoli e nemmeno un premio di consolazione, salvo Venti sigarette, ma nella sezione Controcampo italiano, che non poteva non dare un premio ad un’opera del Nostro Paese. Al momento, un solo titolo su quattro in concorso è richiesto all’estero, in Francia: La pecora nera di Ascanio Celestini e l’unica certezza è per un film fuori concorso, Gorbaciof di Stefano Incerti: Carlo Nardello di Raitrade lo ha venduto perfino in Australia. I giurati italiani negano il “familismo” di Tarantino ma, i fatti, li smentiscono. E, sempre Salvatores, fa un’analisi dura sul nostro cinema: “Io spero che si faccia una piccola riflessione sul cinema che si fa in Italia, in termini commerciali e di qualità. La giuria ha dato un giudizio positivo solo sugli interpreti. Abbiamo due padri ingombranti: la commedia e il neorealismo, se vogliamo crescere dobbiamo non dico uccidere ma superare i nostri genitori”. “Abbiamo problemi di scrittura cinematografica, per i temi che vengono affrontati e come vengono raccontati. La solitudine dei numeri primi di Costanzo ha confuso le idee alla giuria, che faceva fatica a riconoscere i personaggi: molti non avevano letto il libro di Giordano; Martone, è una bella rilettura della Storia ma per chi non conosce il nostro Risorgimento è difficile, non raggiunge una dimensione universale”. Di diverso avviso Marco Muller (“sempre più bravo come direttore” ha scritto sul Messaggero il critico laureato Gian Luigi Rondi), che dichiara: “anche se nessun titolo è stato premiato i film italiani sono stati recensiti dalla stampa di tutto il mondo, con una varietà di giudizi” e continua: “Noi crediamo nella vitalità del cinema italiano, visti i film in concorso e fuori concorso”. D’accordo, ma i premi? Scrive Natalia Aspesi (sempre acuta e “vetriolante”) su Repubblica, che vi sono in sovrappiù due ironie aggiuntive, che rendono più amaro il bilancio (italiano) di questa 67° edizione: la prima è che se in concorso ci fosse stato “Vallanzasca”, ci sarebbe stata la forte possibilità di un riconoscimento a Kim Rossi Stuart come miglior attore., creando certamente un casino non inferiore a quello dell’assenza di premi, con levata di grida di quelli che lo reputano demoniaco ed avrebbero chiesto l’ergastolo per il regista Placido e magari per il direttore della mostra Müller. La seconda è che dentro al Leone d’Oro “Somewhere” c’è qualche minuto dell’Italia dei Telegatti, che partecipa quindi al premio come espressione culturale horror del nostro paese. Noi abbiamo molte perplessità sui premi principali (compreso quello come miglior attore a Vincent Gallo, per la sua interpretazione in “Essential Killing” di Jerzy Skolimowski), ma condividiamo la coppa Volpi andata a una ragazza molto giovane, di bellezza semplice e classica, alta alta, del tutto sconosciuta: la greca Ariane Labed per il film “Attenberg” di Athina Rachel Tsangari. La metafora di questa edizione “tarantinata”, è tutta nel film con Vincent Gallo, possibile talebano che fugge da una prigione dell’esercito americano (nella finzione) e che (nella realtà) riceve il premio o proprio l’11 settembre, ma delega il suo regista a ritirarlo. Il thriller bianco-neve, con un soldato afghano che riesce a scappare dai militari americani che l’avevano catturato e vaga per i boschi del nord Europa ferito, affamato e infreddolito, è il paradigma inquietante di un cinema che ormai vaga senza etica e si giustifica solo in se stesso. In fondo ha ragione da vendere Monty Hellman che ha risposto alle motivazioni di Tarantino dicendo “sembrano scritte da mio padre”. Il buon Quintin non poteva essere più ovvio e meno convincente, tutto concentrato sull’estetica innovativa, senza un’anima etica o un sussulto morale. Quando al documentario fuori concorso in Orizzonti “L’Aquila. Un anno dopo-memory Hunters 1”, è passato quasi inosservato, nonostante l’eccellente lavoro svolto dai 14 allievi del terzo anno di corso dell’Accademia dell’Immagine, che hanno, con vigore (e morale corroborata da vera poesia), raccontato il cambiamento della nostra città, fatto di stravolgimenti umani e sociali, oltre che urbanistici e, forse, persino culturali. Gianni Chiodi, governatore d’Abruzzo e commissario alla ricostruzione, era presente il 10 settembre sia alla conferenza stampa che alla proiezione. Ha elogiato tutti, ma non ha risposto alle parole della Pezzopane che, aveva dichiarato, ”Se dunque, da una parte, questa istituzione continua a dimostrare una vitalita’ importantissima per la ripresa della vita culturale della citta’ dall’altra versa ormai in difficoltà gravissime, dal momento che, per il secondo anno consecutivo, la Regione Abruzzo, socio fondatore, non versa i contributi previsti. Una situazione che rischia di decretare la fine dell’Accademia, privando la città di una realtà culturale che, da sempre, ha portato il proprio marchio, e il nome stesso della città, a livello nazionale e internazionale, e lasciando senza lavoro i dipendenti della struttura, che anche quest’anno non potrà attivare il primo anno di corso, nonostante numerosissime richieste di giovani che chiedono di iscriversi”. Ma a chi import, in un universo con solo pochi soddisfatti e molti che hanno scoperto da poco il “vaso di Pandora” (leggi l’articolo sul Corriere di ieri di Gian Luigi Stella) e credono doveroso soltanto ricostruire case e piazze, senza alcun interesse per la ricostruzione di quella cultura che immaginò e fece quelle case e quelle piazze? Come ha scritto sul il Centro il 2 settembre l’architetto Giancarlo De Amicis, l’unico imperativo di oggi nel “cratere” è “una casa per tutti”, senza preoccuparsi che questa politica condurrà al massimo ad orrori come il progetto C.a.s.e e non ad una “cultura del progetto”, che equivale ad interessarsi delle istituzioni culturali che hanno composto la specificità di questi luoghi e oltre a dare visibilità, potrebbero fornire fatturati (come film commission) e continuare a dare lavoro, come anche adesso fanno, fra mille difficoltà, ad una trentina di persone, di altissima caratura professionale e con un know out che tutti (ma fuori di qui) riconoscono.
Carlo Di Stanislao
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