Eravamo arrivati da poco a Chiesa Valmalenco, in quel piccolo borgo adagiato su pendii scoscesi assai, ma lussureggianti di verde e rigagnoli d’acqua, quando sulla porta dell’albergo Kennedy, la nostra nuova dimora per una notte, vedemmo arrivare una ragazza, capelli corti ed occhi appena sorridenti in un volto fortemente abbronzato.
Avanzava, guardando qua e là tra la gente della hall. Poi, avvicinandosi a noi, con tanta gentilezza disse: ”Non posso sbagliarmi, sono convinta che siete voi gli alpinisti abruzzesi”. Non c’era da confondersi, in quanto il nostro modo di vestire e il nostro tavolo pieno di carte topografiche del Bernina lasciavano ben capire le nostre intenzioni, ciò che avevamo in mente di fare. Appena salutata quella ragazza, dal fisico atletico, si sedette subito vicino a noi alla stessa maniera, col medesimo atteggiamento di una persona amica che conoscevamo da tempo.
Non sapevamo nulla di lei. Guardandola da vicino, mi accorsi che, oltre ad essere di bella presenza, il colore del suo volto non era dovuto al sole delle dorate spiagge adriatiche, bensì causato dalle nevi eterne dei ghiacciai. Lei si chiamava Serena. Era venuta da Sondrio con un piccolo motociclo, per conoscerci e chiederci se poteva farci compagnia durante l’ascensione del gruppo del Bernina e delle altre vette che avevamo in mente di salire.
Sorpresi dell’affermazione, ci guardammo l’uno con l’altro: le chiedemmo chi le avesse dato notizia del nostro arrivo e perché volesse venire proprio con noi. Con poche parole fu tutto chiarito. Con la sua voce, lievemente sottile, ci disse che stava cercando di diventare la prima donna “guida alpina” italiana e che pertanto la conquista, ancora una volta, della vetta del Bernina avrebbe arricchito di punti il suo curriculum d’alpinista.
Rimanemmo sorpresi da quella inaspettata confidenza: non tanto io, quanto i miei compagni che, spinti dalla curiosità del caso, continuarono a farle domande cercando di capire qualcosa in più di quella donna particolare che, di momento in momento, sentivamo sempre più vicina ed amica, da considerarla al pari di una nostra sorella.
Restammo a parlare ancora per poco. Dopo ci salutammo, rimanendo d’accordo che l’indomani mattina, di buon’ora, saremmo partiti insieme con un mezzo fino a campo Franscia da dove sarebbe iniziata la nostra avventura. Chissà perché nell’andare su verso l’alto, forse per simpatia od altro, mi accorsi che Serena preferiva rivolgersi a me e farmi domande. Mi chiese notizie del nostro passato di alpinisti, delle nostre esperienze di montagna, quale lavoro facessi ed altro ancora. Notai in lei un grande piacere nell’ascoltarmi.
Le dissi pure che ero un fisico e che pertanto, oltre all’attività svolta presso un’azienda, studiavo all’università le teorie legate alla struttura della materia, alla fisica nucleare e ai raggi cosmici. Fu proprio per questo che mi bersagliò di domande, volendo sapere perché si generassero i venti, per quale motivo il cielo fosse azzurro, perché la neve fosse bianca ed altro. Cercai di darle risposte brevi ed esaurienti.
Continuammo a farci confidenze per tutta la salita. Poi, al momento di calzare i ramponi ai bordi del ghiacciaio dello Scerscen, con voce ancor più sottile, quasi un sussurro, da non far sentire nulla agli altri, mi rivelò che per amore della montagna e per via del suo grande richiamo, aveva rinunciato alla vita comoda d’ufficio, in quanto segretaria di un’azienda del luogo.
Proseguimmo fino al rifugio Marinelli. Facemmo più volte sicurezza sulle rocce vetrate e sui crepacci di un ghiacciaio accarezzato da una brezza fredda ed insistente, con la luce tenue di un sole che lentamente inabissava tra le nubi rese purpuree dal tramonto. Restammo a dormire. La mattina assai presto prendemmo la via sul ghiacciaio che ci avrebbe portato, dopo alcune ore, al rifugio Marco e Rosa.
Il nuovo rifugio – una piccola capanna tra ghiacci e alte cime, sollecitata giorno e notte dalla furia dei venti del nord – era gestito da un anziano e dal figlio, un bravo ragazzo tornato da poco dal servizio militare, fatto nelle truppe alpine della Brigata Tridentina.
La sera ci sedemmo vicino al tavolo di cucina assieme ad altre due cordate: una tedesca e l’altra austriaca. Tra di loro c’era una ragazza di circa quindici anni, viso sofferente e assonnato, che dava a capire, nonostante il vociare della comitiva, un qualche smarrimento e forse un po’ di paura per il giorno seguente.
A causa del pessimo tempo dei giorni precedenti e con la mancanza di rifornimenti di provviste alimentari da parte dell’elicottero, ci fu detto dal gestore che per cena avremmo dovuto accontentarci di quanto rimasto. Mangiammo una semplice minestra preparata con le acque di scolo della grondaia e un po’ di carne in scatola che portavamo dentro gli zaini. Durante la notte cercai di prendere sonno, ma non ci riuscii.
Il forte rumore generato dalle folate della tramontana mi costrinse ad alzarmi e portarmi in cucina. Alla luce fioca di una piccola candela che lo rischiarava, notai il volto del vecchio gestore, consumato dai freddi, che guardava fisso ed assai pensieroso verso quell’esile fiamma. Guardandomi, mi disse :”Anche per te la tormenta e’ di fastidio”.
Chissà come, dopo un po’, tutti e due ci addormentammo sul tavolo non ancora liberato dai resti della cena. Furono i miei compagni a svegliarmi alla tre del mattino, era l’ora di prepararsi per affrontare la vetta ghiacciata del Bernina.
Dopo aver liberato la porta d’uscita dai cumuli di neve, partimmo. Avanzammo pian piano creando punti di sicurezza con chiodi, corde e piccozze. In prossimità della vetta, la nebbia fredda dalla spinta veloce ci costrinse a tornare in dietro. Con attenzione riscendemmo, portandoci in una zona meno esposta. Fu qui che notando l’orologio fisso alle prime ore del mattino e le condizioni del luogo un po’ migliorate, rispetto all’altro versante, decidemmo di salire sul pizzo Palù.
In quella breve sosta, Serena mi si avvicinò chiedendomi come stava il morale dei miei compagni, aggiungendo che forse era il caso di affrettarci e fissare le prime corde alla base di quella spettacolare piramide di ghiaccio. Nonostante un po’ di ritardo, salimmo sulla vetta con un tempo inferiore a quello previsto. Restammo sopra per qualche minuto, giusto il tempo di consumare qualcosa di molto calorico per sconfiggere la morsa di quel freddo polare.
Tornati alla base, recuperammo gli oggetti lasciati. Poi, guardando in alto ed intorno capimmo che, per via di una presunta intensificazione delle nuvole, dovevamo affrettarci per riscendere al rifugio Marinelli attraversando il lungo ed insidiosissimo versante nord-est del ghiacciaio. Con attenzione e tranquillità arrivammo ai primi profondi crepacci, superandoli facilmente.
Successivamente, quando ci trovammo nella parte centrale di quella immensa distesa di ghiaccio, a causa dell’oscuramento del cielo e di un’improvvisa nevicata che mise fortemente a rischio il nostro ritorno successe l’inaspettato. In quegli attimi lo sguardo si perse nel vuoto, dandomi strane sensazioni, come pure il desiderio di tornare vicino al focolare di casa, vicino ai miei libri, insieme alla mia fisica. Riflettendo per un momento, mi resi subito conto che le nostre speranze di riscendere a valle erano tutte affidate a Serena: qualche ora prima mi aveva confidato che quel temuto e sorprendente ghiacciaio lo conosceva molto bene e che pertanto bisognava avere coraggio e volontà per proseguire.
Per tutto il tempo necessario all’attraversamento dello Scerscen lei fece da capo cordata, anche se ogni tanto gli davo dei brevi cambi. Solo dopo alcune ore di sofferenze e difficoltà venimmo fuori dai pericoli, poggiando gli scarponi coi ramponi sulle prime rocce scoperte. Con premura cercammo di abbassarci di quota, lasciandoci alla spalle il nostro luogo di calvario. Quando uscimmo dal buio delle nebbie notammo il paesaggio sottostante, dove si evidenziavano le ombre lunghe della sera, riscaldato dai chiarori opachi e assai densi del giorno che finiva. Essi accendevano di luce rossastra gli spazi rocciosi e umidi della valle, lasciati da poco dalle nuvole minacciose che avanzavano lentamente verso l’infinito.
Dopo qualche ora il rifugio Marinelli ci accolse di nuovo, ridandoci serenità e sicurezza. Con spirito di grande amicizia abbracciai Serena, stringendola a me e ringraziandola di quanto aveva fatto per noi. Dopo cena al rifugio c’era un po’ di euforia dovuta alle nuove persone arrivate. Ero seduto, solo, in un angolo semibuio di quell’ambiente di riposo, meditando sulla brutta avventura appena superata, quando la vidi arrivare.
Lei si sedette accanto a me. Notai i suoi occhi arrossati, pieni di stanchezza. Con la sua voce sottile mi parlò, confidandomi che mai avrebbe potuto dimenticare i rischiosi momenti trascorsi in un ambiente così desolato. Quasi emozionata, aggiunse: ”Tra i tanti desideri della vita, c’è anche quello di poterti rincontrare al più presto per rivivere insieme un’altra esperienza di montagna”.
La guardai ancora una volta poi, di nuovo, la strinsi fortemente portandole amichevolmente una lieve carezza sul viso, mentre le facevo notare come la sua grande passione per la montagna fosse anche la mia. Per questo ci sentivamo più amici degli altri. Continuò a parlarmi quasi con timidezza, confidandomi i suoi sentimenti: “Che bello averti incontrato e conosciuto, sei una persona diversa dalle altre, una persona con la montagna nel cuore con la quale si sta molto bene insieme, una persona molto sensibile, forse per la fisica che studi, una persona alla quale non si può negare un legame che va oltre una grande amicizia”.
Quelle parole mi fecero capire tante cose, sollevando in me un senso di riflessione e di imbarazzo. Dovetti allora dirle, per non deluderla, che ero sposato da appena due mesi e che la mia giovane compagna, nell’albergo del paese, aspettava con trepidazione ed apprensione il mio ritorno dalle vette. Mentre le davo quella notizia il suo volto cambiò improvvisamente espressione, forse per una speranza impossibile ad avverarsi. Ci lasciammo, guardandoci ancora una volta negli occhi velati di tristezza.
La mattina scendemmo a valle. Nel tardo pomeriggio, venne di nuovo a tenermi compagnia in albergo. Le presentai la mia compagna, alla quale lei raccontò tutto delle nostre ascensioni, anche se il suo sguardo penetrante, seppure in modo sfuggente, spesso era fisso su di me. A tarda sera ci lasciammo definitivamente. Nelle tenebre della notte sentivo in lontananza il rombo sempre più assopito di quel motociclo che si dimenava per le curve di Gaspoggio, scendendo giù verso Sondrio. Portava via con sé quella ragazza dal volto semplice e trasparente, una dolce compagna di cordata, forse un amore per sempre perduto.
Il giorno successivo ci spostammo verso la valle dei Forni, al rifugio Pizzini, per salire l’indomani la parete nord-est del Gran Zebrù, poi il piccolo Zebrù. Avevo però fissa nei miei pensieri l’immagine dolce e indimenticabile di lei; assaporavo ancora il suo profumo, diffuso nell’aria circostante.
Forse un giorno lontano tornerò su quelle misteriose ed eterne montagne. In quei dorsali imbiancati, induriti dalle rigide brezze dell’inverno, o spalmati dei colori sobri dell’autunno, vagherà anche questa traccia bella del mio passato. La montagna, nei suoi silenzi, conserva il tempo e le emozioni di chi la frequenta, come in uno scrigno. Non cancella nulla. Dispendia il suo patrimonio di sensazioni ed emozioni, a piccole dosi, a chi la ama, alpinista o viandante.
Di questa mia storia di montagna, appena diversa dalle tante altre vissute, ancor oggi il ricordo mi desta il rimpianto di quei momenti vissuti in un angolo di mondo quasi sperduto, in compagnia di Serena; di quella ragazza venuta come in un sogno, quasi un angelo, nel crepuscolo di una sera, dalle nebbie luccicanti ed argentate delle Alpi orobiche.
Angelo Fusari
Le mie montagne, quanto mi mancano! Bel racconto…
P.S. Alpi Retiche, non Orobie.
Le mie montagne, quanto mi mancano! Bel racconto…
P.S. Alpi Retiche, non Orobie.