Sotto tendoni della 1° festa di Sinistra Ecologia e Libertà di Messina, Giuliana Sgrena, la giornalista rapita in Iraq nel 2005 e liberata dopo un mese, ha presentato il suo libro “Il Ritorno. Dentro il nuovo Iraq” che narra i motivi del suo ritornare in Iraq nonostante la terribile esperienza del rapimento. “Tornare a Baghdad è stata un’esigenza semplicemente – scrive la Sgrena- perché non si può lasciare aperto un propria vita e non si può rimanere indifferenti alla sorte di chi abbiamo visto soffrire durante la guerra, lottare per i propri diritti e abbandonare per forza il proprio paese. Prima per fuggire alla repressione di Saddam e agli attacchi Usa, e poi alla guerra fratricida tra sciiti e sunniti, fomentata da al Qaeda – che considera gli sciiti traditori dell’islam – e favorita dall’occupazione straniera che ha fatto precipitare il paese nel caos. Forse semplicemente non posso abbandonare le vittime della violenza, la stessa che avevo subìto anch’io. Una scelta maturata a lungo. E preparata”.- Secondo quanto scrive nel suo libro la Sgrena, nonostante gli attentati sanguinari, la vita in Iraq sembra riprendere i ritmi del periodo di Saddam Hussein. La gente torna a mangiare sulle rive del Tigri e le donne riconquistano una visibilità sociale e politica, tanto da abbandonare il velo. Insomma, la nuova strategia americana di accordarsi con gli anziani dei villaggi sunniti ha di fatto tolto spazio politico alla propaganda armata del fondamentalismo islamista. Ma nonostante il “disimpegno” americano nell’area, non tutti i problemi sembrano essere risolti. Con grande sensibilità umana e giornalistica, Giuliana Sgrena, in questo ultimo, sofferto libro, ci racconta perché. Nel 2005, sempre per Feltrinelli, la Sgrena in “Fuoco amico”, aveva raccontato la drammatica esperienza del suo sequestro, del ferimento e della morte di Nicola Calipari, l’agente che poco prima l’aveva salvata dai rapitori, con richiami anche al passato regime, a Saddam, alle guerre, all’embargo, ai preparativi bellici angloamericani in contrasto con le decisioni dell’Onu e alla vicenda delle mai rinvenute armi di distruzione di massa. Nel 2008, poi, sempre per lo stesso editore, aveva scritto “Il prezzo del velo”, dove aveva chiarito che, il ritorno del velo non riguarda solo i paesi arabi ma tocca anche il cuore dell’Europa. Nella cosmopolita Sarajevo, per esempio, sempre più donne scelgono di portare il velo, ma anche nelle grandi metropoli occidentali esso compare con sempre maggiore visibilità. In Francia la questione è stata affrontata impedendo il suo uso nelle scuole e nei luoghi pubblici, come tutti gli altri segni di riconoscimento identitario e religioso. In Italia la risposta è affidata al cosiddetto “buon senso”, eludendo nei fatti il portato ideologico della questione. Di fatto, scrive la giornalista de Il Manifesto, il velo rappresenta simbolicamente l’oppressione della donna nel mondo islamico, quando è imposto come regola religiosa ed il ritorno del velo è dunque legato spesso a regimi teocratici oppure alla reislamizzazione di alcuni paesi. In questo caso si tratta di un velo “ortodosso” solo parzialmente legato alla tradizione locale. Ma la reinvenzione dell’islam restituisce quel senso di appartenenza perso con il fallimento del nazionalismo arabo e quindi dichiara l’appartenenza a una comunità ampia che va oltre i confini dei singoli stati nazionali per investire anche l’Occidente.
Carlo Di Stanislao
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