Siamo tutti convinti che ogni uomo pensi e riteniamo il pensiero un’attività naturale e scontata. In ogni momento della vita, nella nostra mente, si svolgono attività incessanti, tanto durante lo stato di veglia che nel sonno, si tratta di correnti di pensiero e impressioni mentali che ci arrivano dalla mente collettiva, quei flussi cerebrali prodotti da tutti gli uomini, che impregnano l’energia intorno a noi e che creano, quando raggiungono il cervello di ognuno di noi, delle risposte meccaniche, scambiate per pensieri. In realtà la nostra mente, perennemente affollata da mille pensieri, non pensa quasi mai; la mente, come uno specchio poliedrico, riflette sensazioni, emozioni, desideri che arrivano dall’ambiente circostante, dal corpo o da atavici, sepolti, retaggi. Ciò che chiamiamo pensiero risulta essere una sfaccettatura della mente, un’attività spontanea e automatica non governata dalla nostra attenzione. La trilogia cervello, mente, pensiero possiede un’ enorme e innata potenza dalle sfumature trascendenti che l’uomo cerca di comprendere fin dai tempi più remoti, con scarso successo. I filosofi di ogni tempo hanno sviscerato l’argomento elucubrando infinite teorie sul mistero del cervello umano e delle sue dinamiche e sulle funzioni della mente, lasciando tuttavia viva e accesa una lunga serie di dubbi e, peggio ancora, offrendoci davvero scarse informazioni adeguate a disciplinare le forze smisurate di questo “grande mostro” di patrimonio comune che è appunto la mente. L’ uomo è anatomicamente dotato di un cervello come tutti animali, il cervello umano si comporta però in modo differente da quello animale. Non è un fatto di volume o di peso a fare la differenza, è la Coscienza. Il cervello degli animali possiede una coscienza limitata all’istinto, quello dell’uomo espansa alla ragione, aperta alla più ampie forme di Conoscenza. Attraverso la mente ed il pensiero il cervello permette all’Anima di manifestarsi. Viene da chiedersi come mai solo l’uomo sia provvisto di Coscienza. La mitologia Indù narra che all’inizio dei tempi l’uomo aveva capacità simili a quelle degli dei, ma essendosi inorgoglito volle impadronirsi della Terra e sottomettere le creature divine. Per punirlo il dio Brahama gli tolse i suoi poteri nascondendoli non nelle profondità dei mari, non nel centro della Terra o sulla Luna, perchè in quei luoghi sarebbe stato facile all’uomo ritrovarli. Li nascose invece nell’uomo stesso, nei suoi meandri più profondi. “Lì” disse il dio “nessuno li troverà mai”. L’espressione più evidente della trilogia, che ci accompagna in ogni istante, è il flusso mentale che chiamiamo pensiero. Come scimmie indisciplinate i nostri pensieri saltano continuamente qua e là, spesso senza un filo conduttore, senza logica. “Tutto quello che pensate è immediatamente tracciato sul vostro volto. Ogni pensiero ostile e dannoso agisce come un bulino, che incide i pensieri nella vostra fisionomia. I volti di ciascuno di noi sono ricoperti di segni, di rughe e di cicatrici, provocati dai pensieri di odio, di ira, di cupidigia, di gelosia, di vendetta, ecc.” ha scritto Swami Sivanada ne “La potenza del pensiero”. Il pensiero, in ogni sua manifestazione, crea, sempre e ovunque. Ne abbiamo esempi lampanti di continuo: prima di fare una cosa qualsiasi, di qualunque entità, noi la pensiamo, la immaginiamo. Se vogliamo fare una torta innanzi tutto “pensiamo che vogliamo fare una torta”, ci attrezziamo in seguito con quello che ci serve, infine procediamo all’esecuzione e la torta nasce. Ma c’è ancor di più: se siamo entusiasti, se pensiamo che faremo un’ ottima torta, difficilmente ne uscirà una schifezza, se al contrario pensiamo che “le torte non sono tra i nostri piatti forti, che abbiamo il forno mal funzionante ecc.” possiamo star certi che non uscirà un capolavoro. Possiamo arrivare a dire che il pensiero crea eventi che avranno le medesime qualità del pensiero stesso da cui sono scaturiti. Il Pensiero positivo rappresenta la chiave per scardinare gli schemi mentali negativi che sono tra le cause sia delle malattie, sia ci affliggono che della nostra infelicità in generale. Tutti noi, spendendo poche briciole di volontà in modo metodico, possiamo disciplinare i salti folli dell’esercito di scimmie impazzite che dispone delle menti e condiziona le esistenze. Tutto questo per dire che se davvero vogliamo risorgere dobbiamo in primo luogo farlo nel pensiero, nel flusso della nostra coscienza e della nostra immaginazione. Se è vero che è solo prendendo coscienza dei nostri pensieri che possiamo riprogrammare la mente, il corpo e la salute, gli eventi della vita, è altrettanto vero che è cambiando piani, visioni e pensieri che possiamo riprogrammare la vita in una città che sia davvero nostra. Molti avranno visto il film “L’attimo fuggente” e sicuramente ricorderete la scena degli allievi che salgono sopra la cattedra per avere un altro punto di vista. Trovare altri punti di vista significa rendere creativo ogni nostro pensiero e ogni nostro istante. Saliamo più alto del nostro rancore e tirarci sopra il dolore e l’afflizione; è solo così che daremo luce ad autentiche prospettive e sapremo, davvero, cosa esigere, senza ringhiosità, ma con lucida fermezza. Non è mancanza di realismo, è semplicemente lasciare aperta la porta ad altre possibilità… la nostra mente riceverà così un messaggio creativo, apportatore, di nuove opportunità, invece di quello limitante della rabbia, della perdita, della sconfitta e del rancore. Avete presente Scarlett O’Hara (Via col Vento) quando giura che non avrà mai più fame? Vi ricordate cosa fa per tener fede al suo giuramento? Lotta per il cibo, o per allontanarsi dalla fame? Scarlett fa questa affermazione: “La fame è orribile- mi ferisce e mi uccide, e la odio!” Dov’è l’attenzione di Scarlett? Su avere cibo a sufficienza? No! E’ sulla fame! Lottando contro qualche cosa, resistendo così pesantemente, continuando a vigilare contro di essa, lei investe un tremendo quantitativo di attenzione nel progetto. E lascia attaccata, e perennemente convalida, proprio la cosa che disprezza di più. Ed è anche in noi che questo attaccamento alla distruzione che sta facendo fallire ogni progetto. Le idee attaccamento non sono inconsce. Ma passano inosservate. Incise nel nostro pensiero in un minuscolo istante, in mezzo a ogni altro rumore col quale occupiamo noi stessi, non vengono messe in dubbio. Questo è particolarmente vero poiché ciascuna porta in sé una dose di resistenza che ci fa guardare lontano ogni volta che ci avviciniamo troppo ad una di esse. E la cosa che non vogliamo sperimentare è la difficoltà di rinnovare una città, nelle pietre e nei contenuti. Si tratta di capire ciò che come singoli e come comunità, consideriamo bello o brutto, perché come scrive Italo Insolera, la chiave per capire e risolvere ì questo problema e per gestirlo correttamente, sia proprio quella di chiederci quali sono gli elementi della città – di quel pezzo di città, di quella piazza, di quella casa – che ci piacciono e che fanno sì che vengano frequentati volentieri. E, a questo punto, porsi un’altra domanda essenziale e cioè il rapporto tra il moderno e il non moderno. Non c’è nessun motivo in fondo perché il moderno debba essere brutto. Potrebbe essere bello, potrebbe essere bellissimo. Dipende da come la città moderna, le case moderne, i parchi moderni, i quartieri moderni, si collegano alla nostra vita, si collegano a quella parte di essa che richiede uno spazio e un ambiente proporzionato a quello che è l’uso che noi altri ne facciamo. Inoltre dobbiamo anche pensare, che non è un pittore che deve dipingere i muri di un colore, un arredatore che deve sistemare le panchine e il verde in una piazza, un architetto che deve fare una bella casa, ma è proprio tutta una serie di attività, dentro questo involucro, che devono rendere questo involucro accessibile, usabile. Questo è, soprattutto qui da noi, fondamentale. Il problema non è tanto quello di avere delle cose belle in sé, ma di avere un rapporto con le cose belle, che faccia bella la nostra vita e che quindi renda bella la nostra vita dentro la città. Voglio dire che noi siamo, in fondo, il tramite tra quello che può essere un insieme di cose statiche e quello che le rende vitali. Una città senza gente, come può essere Pompei, indipendentemente dal fatto che sia distrutta, non è una città. E’ una zona archeologica, è un elemento culturale di grandissimo interesse, può avere un suo fascino straordinario, ma non è una città. Per essere una città bisogna che ci sia quel rapporto di uso, in maniera che la città diventi nostra, in modo che possiamo attraversarla e fare al suo interno le cose che vogliamo fare come a casa nostra.
Sta noi fare de L’Aquila futura una città nostra e non un museo.
Carlo Di Stanislao
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