Tutto è cominciato con le proteste da parte della polizia e dell’esercito per una legge che toglie alle forze dell’ordine i loro privilegi fiscali equiparandoli a tutti gli altri impiegati statali, ma la situazione in Ecuador è ben presto degenerata in un tentativo di golpe, poi fallito. Il 30 settembre, un gruppo di poliziotti ha occupato l’Assemblea Nazionale a Quito e impedito l’ingresso o l’uscita delle persone che lavorano all’interno. Diversi deputati hanno denunciato di essere stati cacciati dai loro uffici e il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza, delegando alle Forze armate la sicurezza interna ed esterna. Inoltre, un gruppo nutrito di poliziotti ha assediato l’ospedale dove era ricoverato il presidente Rafael Correa, disperdendo con i gas lacrimogeni una folla che si era avvicinata per difendere il presidente. Nella notte di ieri, un blitz dell’esercito ha restituito a Correa la libertà, permettendogli di riassumere in pieno le sue funzioni, dopo una vera e propria battaglia durante la quale due poliziotti hanno perso la vita e trentasette persone sono rimaste ferite. La ribellione degli agenti sarebbe nata per una rivendicazione salariale e di premi e bonus che il governo ha deciso di togliere. Infatti, le forze dell’ordine e i militari hanno in Ecuador uno status privilegiato rispetto a tutti gli altri funzionari pubblici. Privilegi conquistati col potere delle armi, con la minaccia costante esercitata sulle istituzioni, i tentativi di golpe sono stati molti. L’Ecuador ha avuto sette presidenti dal 1996 ad oggi, nessuno ha potuto terminare il suo mandato. Abdala Bucaram è stato destituito dal Parlamento nel 1997, Fabian Alarcon durò meno di un anno e cadde per uno scandalo di corruzione nel 1998, Jamil Mahuad viene deposto da una rivolta di indigeni e militari dopo che aveva congelato i conti correnti e dollarizzato l’economia del paese, Gustavo Noboa dura tre anni, ma deve affrontare molti scioperi, Lucio Gutierrez, golpista di professione, governa dal 2003 al 2005, ma viene destituito sotto l’onda di una violenta protesta popolare, Alfredo Palacio governa per due anni e il primo gennaio del 2007 consegna il potere al socialista Rafael Correa. Nel gruppo che ha tenuto sotto sequestro il presidente “non tutti erano poliziotti, c’erano infiltrati di partiti politici”, ha detto lo stesso Correa, mentre fin dalle prime ore di quello che il capo dello Stato aveva definito “un tentativo di golpe”, più fonti avevano parlato di “moventi politici” che avrebbero spinto l’azione dei poliziotti in rivolta. Correa ha voluto accusare anche alcuni dei suoi avversari politici di aver diffuso, tra i membri dei servizi, dati falsi su una legge approvata dal Parlamento e riferita alle condizioni economiche e altri provvedimenti riguardanti la polizia. La Stampa ed altri giornali, in Italia e nel mondo, si chiedono che quello in Ecuador è stato un n tentativo di golpe o una ribellione cresciuta al punto di poter debilitare le istituzioni ed affermano che è difficile saperlo. Correa ha sicuramente commesso un errore strategico nel mettersi nella tana del lupo ed andando di persona a negoziare con gli agenti ribelli. La scena di lui (vedi http://www.youtube.com/watch?v=Ix5Ndy0njxs) che parla dal balcone ai ribelli e grida: “Se volete uccidermi fatelo pure, ma non fermerete il cammino della giustizia in questo paese” è impattante. Così come quella del presidente con la stampella (è stato appena operato a un ginocchio) e la maschera anti-gas. Nelle ore del golpe, a Buenos Aires si sono riuniti diversi presidenti sudamericani, mostrando, ancora una volta, che oggi il continente sa reagire velocemente. C’era Cristina Kirchner a fare gli onori di casa, l’uruguaiano jose Pepe Mujica, il cileno Pinera, Alan Garcia, Hugo Chavez, Evo Morales, Juan Manuel Santos. Assenti giustificati, il brasiliano Lula da Silva (si vota domenica) e il paraguaiano Fernando Lugo, in cura per un cancro, hanno mandato comunque dei loro emissari. “Non si deve ripetere un golpe come quello dell’Honduras”, è stato il commento generale, e non importa che seduti intorno al tavolo al Palacio San martin, sede del ministero degli esteri argentino, c’erano leader con posizioni ideologiche diverse (Da Chavez a Pinera). Tutti a ergersi come fermo baluardo contro il fantasma, sempre ritornante in Amercica Latina, del militarismo.
Carlo Di Stanislao
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