Di quel giorno non può e non vuole parlare: “é stata una botta, non mi va”. Luca Cornacchia, 31 anni, di Lecce nei Marsi, in provincia dell’Aquila, era seduto davanti, accanto al conducente del Lince saltato in aria quel maledetto 9 ottobre, nella provincia talebana di Farah. Sono morti tutti, quelli a bordo del mezzo blindato, San Lince, come lo chiamano, che stavolta però non ha fatto il miracolo. Erano tutti e quattro amici suoi. Sono morti, ma lui ha fretta di “guarire e tornare laggiù”. Luca, ricoverato nell’ospedale militare da campo di Herat, il quartier generale italiano, parla con i giornalisti per la prima volta da quel giorno. E’ infilato nel letto e sorride alla telecamera con gli occhi verdi che brillano. E’ un bel sorriso, il suo, non diresti che ha passato quello che ha passato, che ha visto quello che ha visto. Questa è la sua terza missione in Afghanistan e il padre ha detto che stavolta “non era sereno come al solito”, ma preoccupato: “per questo ha voluto portarsi dietro a tutti i costi l’immaginetta di Padre Pio. E’ lui che l’ha salvato”. Lui, caporal maggiore scelto, di tutto questo, non parla. Uno dei suoi obiettivi è “dimenticare”. Dimenticare i corpi dei suoi compagni maciullati dall’esplosione, gli spari che hanno preceduto e seguito quell’enorme boato, le grida, la battaglia combattuta nella valle del Gulistan dagli alpini del 7/o reggimento di Belluno contro una trentina di insorti. Dei suoi amici a bordo del Lince piace parlare come erano ‘prima’: “erano grandi, tutti bravi ragazzi. E’ successo quello che è successo, ma li ricorderemo sempre com’erano”. Come va? “Me la cavo, diciamo, è stata tosta”. A chi gli chiede se si sente una persona coraggiosa risponde di no: “No, sono una persona normale. Normalissima”. Le sue condizioni di salute ormai non sono più preoccupanti. Luca parla di “acciacchini”. “Un piede fratturato, una costola schiacciata, il fegato un po’ lesionato, i polmoni ristretti. Ma nell’insieme sto bene. Tutto a posto. I medici dicono che serviranno due-tre mesi e poi sarò come nuovo”. A Camp Arena è stato trasferito qualche giorno fa dall’ospedale di Delaram, gestito dagli americani, dove era stato trasportato in elicottero subito dopo l’imboscata. Ora aspetta di essere rimpatriato e di rimettersi in forma perché vuole tornare quaggiù, dai suoi compagni. “Aspetto di tornare in Italia, a casa dai miei, dimenticare tutta questa storia e ricominciare prima possibile”, dice. “Ricominciare da capo, tornare in missione coi miei ragazzi”. Tornare in Afghanistan: sei proprio sicuro? “Certo, è il mio lavoro. Non vedo l’ora”. Con i suoi colleghi del 7/o di Belluno, che si trovano tuttora nello sperduto e pericoloso distretto del Gulistan, Luca è in contatto “ogni giorno. L’altro ieri ho fatto una videochiamata, finalmente li ho rivisti. Ho voluto salutarli tutti, fargli vedere che stavo in forma. Sono stati contentissimi, sono tutti molto forti e aspettano che guarisca e che torni da loro”. Tutti i giorni Luca parla con la moglie, che vive a Roma: “ogni volta le ripeto di stare tranquilla, che presto tornerò a riabbracciarla”. E ribbracciare, con lei, anche il piccolo Alessandro, “che ogni volta mi chiama, ‘papa”. Ha 16 mesi”. In realtà, almeno per questa missione, Luca non potrà raggiungere i suoi ‘ragazzi’. Ci vorrà ancora un po’ di tempo per guarire, nel fisico e nello spirito, perché dovrà superare anche psicologicamente i momenti orrendi vissuti. “Nei prossimi giorni i medici mi faranno sapere quando potrò essere rimpatriato. Certo, io ho voglia di tornare dai miei prima possibile, ma soprattutto voglio rimettermi in forma: prima farò una bella vacanza con mia moglie e mio figlio, noi tre soli e nessun altro. Poi – ripete, soprattutto a se stesso – sarà ora di tornare in missione”.
Vincenzo Sinapi
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