Oggi Berlusconi, ha convocato una riunione della direzione del Pdl, proprio mentre è al centro delle nuove polemiche che ruotano attorno ai festini a Villa San Martino. Ma più che le sue vicende personali, sono stati i nodi politici a tenere banco: quelli legati alla tenuta della maggioranza – ieri altri due parlamentari hanno lasciato il Pdl per aggiungersi ai finiani – e quelli più strettamente connessi all’agenda di governo. Si tratta, peraltro, della prima riunione del “parlamentino” pidiellino, a sei mesi di distanza dalla precedente, quella del 22 aprile in cui venne di fatto formalizzata la rottura tra Berlusconi e Fini con la conseguente nascita di Futuro e Libertà. I due leader non si parlano da tempo e negli ultimi mesi hanno comunicato solo attraverso i rispettivi “sherpa”. Tuttavia in mattinata, dopo una freddezza iniziale, hanno avuto uno scambio di battute all’Altare della Patria, dove hanno partecipato alle celebrazioni per il 4 Novembre. Le agenzie di stampa raccontano di una chiacchierata che ha preceduto l’arrivo del capo dello Stato intervallata anche da qualche sorriso. Resta però da capire se si sia trattato solo di convenevoli di circostanza. Questa la cronaca di queste ore, ma la sostanza, io credo, è ben altro. Berlusconi è un autocrate che crede solo nel potere e nella forza di persuasione dei media, un uomo con una visione da caudillo della politica e che non cambierà mai. Per questo (ed anche perché sa che la cosa è gradita alla più parte degli elettori), difende le sue deprecabili condotte private, anche quando divengono imbarazzatemente pubbliche e getta fango sui gay. La vera domanda da porsi, a questo punto, non è quindi, cosa farà lui in questo tramonto piuttosto melanconico e con pezzi di Pdl che passano ai finiani, ma cosa faranno gli altri. Cosa farà la Lega, fedele alleata ma attratta da sondaggi molto favorevoli in caso di elezioni e cosa i futuristi di Fini, che contestano ma non staccano la spina e cosa ancora i grandi manovratori del centro (UDC ed API), l’IDV e la sinistra. Come nota sul Sole 24 Ore Franco Debenedetti, non è tanto la crisi del Pdl, ma quella dell’opposizione ad essere grave e preoccupante. La crisi del berlusconismo, al di là dei fatti fortuiti che la possono far precipitare, è fisiologica: avvicinandosi la fine del suo ciclo, il capo perde il suo potere di coalizione e la sua capacità di governare, già non eccelsa, va in stallo. E, naturalmente, i primi “topi” abbandona la nave per legni più sicuri e già molti ufficiali di bordo si tengono vicini alle scialuppe di salvataggio. In questa situazione a restare fedeli al premier “sputtanato” e dimezzato (in Italia e nel mondo), solo gli sparuti ed in fondo ammirevoli Letta, La Russa e Santanchè, che chiama in causa la storia, citando a Matrix addirittura affari da boudoir di Vittorio Emanuele II e Garibaldi, per difendere l’amato capo. Come dicevamo, più grave e complessa è la crisi dell’opposizione, come dimostra il modo in cui affronta la transizione: invece di affrettarla, cerca di rinviare il momento della verità, quando gli elettori scelgono da chi essere governati. A destra, pronti ad accogliere gli orfani del berlusconismo, ci sono Fini, la Lega e Casini, condizionati dalla necessità di non pregiudicare gli investimenti fatti per definire le proprie identità; gli epigoni e i diadochi, in competizione per l’eredità del PdL. Ma è a sinistra che il quadro appare più incerto, con un Pd, attraversato da tensioni tra ex diessini ed ex margheritini, la tentazione di diventare un compiuto partito socialdemocratico, anche per recuperare quel 20% di voti moderati e la totale mancanza di idee innovative e di una credibile e nuova classe dirigente. Per 16 anni questa sinistra, che negli ultimi dieci ha governato solo due anni, ha sviluppato una sola linea suicida: l’antiberlusconismo, che è poi divenuto la stampella del berlusconismo e non ha saputo realizzare davvero nessun reale proposito o progetto. Un paio di giorni fa, Mario Pirani, in un’intervista all’ADNKRONOS a proposito del suo libro di prossima uscita: “Poteva andare peggio, mezzo secolo di ragionevoli illusioni”, parlando della fragilità della nostra sinistra, ha affermato che essa, da noi, “e’ composta da due grandi filoni: quello riformista e quello del massimalismo rivoluzionario a parole. E chiarito: “Togliatti negli anni dal ’45 al ’50 ha saputo tenere assieme tutto questo rendendo costituzionali le masse popolari italiane, le masse bracciantili, quelle operaie e nello stesso tempo proiettando in una specie di dimensione atemporale, come in un’icona, l’idea del socialismo”. Il refrain era, ha continuato, ”un giorno faremo come in Russia, ma era un giorno che non aveva scadenze, era solo una cosa messianica. E poi, quando l’Unione Sovietica si e’ mossa ed ha invaso Ungheria prima e Cecoslovacchia poi, questa possibilità di mantenere un quadro unitario e’ saltata e da allora non si e’ mai ricomposta”. Secondo lui, quindi, la mancanza di coesione e di idee dipende dal fatto che fra riformisti e massimalisti non vi è mai stata vera comprensione, dialogo e coesione. In un confronto con Rossella, arbitro Lillì Gruber, su La 7, ieri sera Guglielmo Zucconi ha fatto capire che poi c’è il problema, già es0ploso in America con i T-Party, di quei gruppi popolari che si riconoscono nell’antipolitica, gruppi fino a ieri cavalcati dalla Lega, oggi inseriti fra “grillini” e “popolo viola” e che l’IDV di Di Pietro cerca disperatamente di intercettare. Come ha scritto di recente (il 14 ottobre), Michele Prospero, nel confuso ciclo politico che si è aperto in Italia dai primi anni Novanta, si nota una drastica oscillazione tra lunghi momenti a spiccata dominanza populista e più contenute fasi di relativa normalizzazione del sistema istituzionale. In ogni caso l’aggressione alla funzione storica dei luoghi e dei soggetti della mediazione (partiti, rappresentanza) assume tonalità assai virulente. Nel 2007 il populismo è giunto ad un passo dal compiere la sua grande metamorfosi, da escrescenza solo patologica di una malandata democrazia latina, a dato sistemico generale, ormai metabolizzato e quindi senza più forti alternative. La presidenzializzazione del modello di partito, varata nel primo statuto del Pd, infatti, modulava su una finzione (l’elezione diretta del premier) anche la forma di partito a vocazione maggioritaria. La stessa formula delle primarie aperte, riservava al popolo indistinto dei compiti dell’iscritto o del militante in una coerente ottica di democrazia intraorganizzativa. La dispersione della funzione propria dell’iscritto nelle prerogative del popolo indifferenziato postulava il trionfo di un partito elettorale integrale. In esso il leader è sciolto dalla logica complessa dell’organizzazione e si rapporta ai media per attirare il gradimento di una opinione pubblica ondivaga. E questo, a parte il l’esaltazione dell’autarchia berlusconiano, ha generato, in altri luoghi politici e civili, ha generato un paradosso in base al quale, anche chi osteggia la partitocrazia poi edifica un suo partito basato sul complesso aziendale-mediatico come prolungamento del corpo del capo. Anche chi dipinge i partiti come “ossi di seppia” o li ricopre di ingiurie in blasfeme adunate piazzaiole poi inventa un suo partito e magari gli dà il proprio nome. Dalla lista Di Pietro alle liste “con Vendola” o agli “amici di Grillo” la febbre dell’antipolitica conduce con una certa regolarità ad una pacchiana ipertrofia dell’io. Nel cuore di una società complessa e stratificata, aspiranti capi carismatici crescono e con tono altezzoso recuperano la fatidica espressione “il partito sono io”. Il delirio della personalizzazione smisurata arriva ad adottare come inno di partito il “meno male che Silvio c’è” o a proporre come luoghi di elaborazione programmatica le “fabbriche di Nichi”. La follia della personalizzazione della carica monocratica incoraggia ogni sindaco o governatore a coltivare inopinati sogni di grandezza invocando primarie e rottamazioni di classi dirigenti. Vent’anni fa il sistema politico italiano sognava Westminster con i suoi sobri cerimoniali del potere, ora si ritrova a un passo da Bucarest con micropartiti personali che operano nel deserto di robuste mediazioni istituzionali. E, duole dirlo, dinanzi alla crisi del populismo diventa centrale la ricostruzione di partiti, per ritrovare l’autonomia della politica, archiviando le primarie di coalizione, ultima roccaforte del germe populista e portando avandi un programma chiaro in cui, solo chi vi si riconosce, pone la propria firma. Quanto poi a Fini, emblema di una destra di respiro più politico, moderno ed europeo, dovrà ben decidere ora (forse lo farà a Perugia il prossimo fine settimana?) cosa vuole fare da grande. Berlusconi è morto e lui dovrà assumersi le proprie responsabilità: dovrà “disarcionarlo” e dovrà farlo partendo da Perugia. Ne va della sua credibilità. Certo, in questo modo, verrà dipinto come un traditore ed un killer, ma si troverebbe nella condizione di poter disegnare il percorso del suo partito nuovo di zecca, senza più zigzagando all’interno della maggioranza. Finora, di là dalle parole e dagli incontri molteplici e su vari punti con API e UDC, il suo non è stato un bel esempio di buona politica, perché ha giocato dentro e fuori alla maggioranza, un gioco che non potrà più fare a lungo. E non si tratta, io credo, di dichiarare (già da Perugia) se sta con Berlusconi o con Bersani, perché potrebbe anche stare, shakespearianamente, con se stesso: rappresentante di una politica di destra, ma autentica e non di marca sudamericana o populista.
Carlo Di Stanislao
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