E’ di 15 morti e 115 feriti il bilancio dell’attentato compiuto ieri sera con un’autobomba a Karachi, seconda città del Pakistan, nel sud del Paese, nella parte più prossima all’Afganistan. La deflagrazione ha colpito il quartier generale del Dipartimento indagini criminali e un fotografo dell’Associated Press ha riferito che si è aperto un cratere profondo tre metri, all’esterno dell’edificio di sette piani, che è stato distrutto.L’edificio si trova in una zona di massima sicurezza della città, non distante dal plurifortificato consolato statunitense, due alberghi di lusso ed edifici governativi, comprese le residenze del governatore e del primo ministro. Le immagini televisive hanno mostrato persone insanguinate portate via dal luogfo dell’attentato e agenti della sicurezza cercare tra le macerie dell’edificio della polizia. Secondo la portavoce della provincia di Sindh, di cui Karachi è la capitale, tra i morti ci sarebbero cinque poliziotti tra cui anche donne. L’attentato è stato rivendicato dai Talebani. E non vi è pace neanche in Iraq, dove una nuova serie di attacchi contro abitazioni di cristiani ha provocato la morte di almeno 6 persone. Il bilancio, ancora provvisorio, è stato reso noto dal Ministero della Difesa iracheno. I nuovi attentati seguono di 10 giorni la strage avvenuta il 31 ottobre nella chiesa siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad e costata la vita a decine di persone. Il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, a margine di un convegno a Roma, ha auspicato che le autorità irachene prendano in seria considerazione la situazione dei cristiani, che stanno vivendo una situazione di sofferenza indicibile, così come le comunità cristiane in Pakistan e in altri Paesi. Per oggi è prevista a Bagdad una seduta del Parlamento per risolvere la questione della formazione del nuovo governo. Gli attacchi e gli attentati avvengono anche a causa della mancanza di un’adeguata cornice di sicurezza, in un Paese di fatto senza governo. Come hanno osservato diversi analisti, la costituzione di un nuovo governo di unità nazionale che includa anche la lista Iraqiya del rivale di Maliki, Iyad Allawi, da un lato, e la nuova ondata di violenza settaria nel paese dall’altro, non sono in contraddizione fra loro ma rappresentano piuttosto due facce di una stessa realtà politica, quella di un “nuovo Iraq” costruito sulla base delle divisioni etniche e confessionali, e divenuto teatro di gravi ingerenze esterne e valvola di sfogo delle tensioni regionali. I prossimi giorni (o le prossime settimane) ci diranno più in dettaglio come si cristallizzeranno gli equilibri all’interno del governo di unità nazionale che si sta prospettando. Ma questo significa molto semplicemente che la formazione del nuovo esecutivo non porrà fine alla crisi irachena, così come la definizione del nuovo governo in Libano nel novembre 2009 non ha posto fine alla crisi nel “paese dei cedri”. Il paragone con il Libano è perfettamente calzante secondo un numero sempre maggiore di osservatori. Il “nuovo Iraq” si sta configurando come una democrazia confessionale sul modello di quella libanese, una democrazia in cui le tre principali cariche del paese vengono assegnate su base etnica e settaria (il primo ministro agli sciiti, il presidente della repubblica ai curdi o ai sunniti, ed il presidente del parlamento ai sunniti o ai curdi). Ma la spartizione etnica e settaria coinvolge anche i ministeri, l’amministrazione statale e gli apparati della sicurezza. Inoltre, ciascuna delle componenti settarie, confessionali, etniche e tribali del paese cerca di imporsi sulle altre facendosi spalleggiare da questo o quel paese confinante, o da altre forze regionali ed internazionali. Il risultato è che il processo politico nel paese rischia di rimanere paralizzato, anche in presenza di un governo, dalle rivalità contrapposte e dalle ingerenze regionali ed internazionali, proprio come accade in Libano. Christopher Altieri il procuratore caldeo a Roma ha commentato ai microfoni di Radio Vaticana che i terroristi: “Vogliono dimostrare che si tratta di un conflitto tra cristiani e musulmani. Ma non è così. Cristiani e musulmani hanno sempre vissuto insieme, hanno costruito il Paese insieme, hanno costruito il futuro dell’Iraq insieme. I terroristi cercano, anche attraverso i mass media, di creare questa paura e di alimentare una situazione instabile, per dimostrare la debolezza di un Paese ormai caduto in basso dal punto di vista della sicurezza dei suoi cittadini”. Colpiti, infatti, sono anche i fedeli mussulmani. Si ricorderà che il 5 novembre la preghiera del venerdi’ in una moschea di Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, si concluse in tragedia, con l’esplosione di una bomba che causò 25 morte e diverse decine di feriti. Sulla strage di cristiani in Iraq è intervenuto, dalle pagine de L’Osservatore Romano, il cardinal Tarcisio Bertone, che ha detto: “Stiamo riflettendo come ha già fatto il Sinodo dei vescovi su questo grosso problema della persecuzione dei cristiani, su questa sofferenza indicibile delle comunità cristiane sparse nel mondo in questo momento, soprattutto in Iraq. Ma pensiamo anche ad altri Paesi, come il Pakistan”, esprimendo anche riconoscenza ai Governi francese e italiano “che hanno messo a disposizione mezzi per trasportare e curare i feriti più gravi”.
Carlo Di Stanislao
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