“Gang”, di Robert Altman (USA, 1974), è il decimo film della serie “Cinema D’Essai”, curata dal critico Pier Cesare Stagni e promossa dall’Istituto Cinematografico Lanterna Magica e dalla multisala Movieplex, in collaborazione con L’Accademia de L’Immagine. Evasi da un campo di lavoro, tre condannati all’ergastolo si rifugiano da un parente dei tre che vive con la figlia Keechie. Individuati dalla polizia, riprendono la fuga, ma solo uno riesce a scamparla e si rifugia con Keechie in una casa nei boschi. Ma la libertà durerà davvero poco. Interpretato da Keith Carradine, Shelley Duvall, John Schuck, Bert Remsen, Louise Fletcher, Ann Latham, il film (della durata di 2,03 ore), sarà proiettato al Movieplex martedì prossimo, con spettacolo unico alle ore 18. Si tratta di un film fra i meno noti del grande Altman, che trasmette un profondo senso di vuoto opprimente nella sua voluta antispettacolarità, dove i momenti di suspence vengono semplicemente tralasciati per concentrare l’attenzione sulla quotidianietà molto banale dei personaggi, accompagnati ossessivamente dalle parole della radio e da pubblicità invasive che lentamente fanno breccia sullo stile di vita di una società che non cerca miti o romanticismi, ma solo una rassicurante quotidianità. Distaccato e volutamente freddo, la pellicola umanizza la figura del bandito rapinatore di banca, mitizzato invece in altri film usciti più o meno negli stessi anni (Dillinger, Gangster’s story e ancora “The Racket”, tradotto in italiano con lo stesso titolo di Gang). I protagonisti sono brutti, poco sicuri di sè e senza grandi aspirazioni; l’ambiente è quello della provincia americana, misero, fatto di emarginazione. Insomma, film senza la minima tendenza alla romanticizzazione e alla nostalgia ma efficace come ritratto nudo e crudo. Non lo consiglio a chi da film come questi si aspetta solo ritmo, sparatorie e battute ad effetto. Sceneggiato dal regista con Calder Willingham e Joan Tewksbury e tratto, come La donna del bandito (1949) di N. Ray, da un romanzo di Edward Anderson, offre, in chiave di ironia dolceamara più che di disperato romanticismo, un quadro poetico e attendibile del banditismo rurale dei primi anni ’30 e rinnova il genere gangsteristico con originalità, in bilico tra critica sociale e lirismo elegiaco. Pochissime le copie ancora in giro. Fra le meglio conservate quella che sarà in visione martedì, uno dei gioelli della Cineteca aquilana curata dalla Lanterna Magica.
Carlo Di Stanislao
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