Il via libera all’accordo è arrivato proprio nelle stesse ore in cui la Fiom Cgil, che questo contratto – e quello di Mirafiori – non ha mai voluto, stava proclamando otto ore di sciopero per il 28 gennaio. Il Giornale titola “Una sconfitta degli anti-italiani” e chiosa affermando che il contratto Fiat di Pomigliano e la riforma Gelmini, sono due grandi vittorie di questo governo. La firma è arrivata dopo una stretta finale iniziata l’altro ieri e continuata il giorno dopo, presso la sede romana della Fiat. Alla trattativa non ha preso parte la Fiom che non aveva firmato l’accordo del 15 giugno. Le novità del contratto, secondo fonti sindacali, riguardano: l’incremento salariale, che con un il rialzo medio si dovrebbe attestare a 360 euro lorde l’anno a regime (30 euro lorde al mese); l’altro aspetto è relativo alla semplificazione dell’inquadramento professionale (da sette a cinque gruppi), con fasce intermedie all’interno dei gruppi per facilitare gli avanzamenti professionali. La chiave dello scontro – scrive Repubblica – è nell’ultimo paragrafo delle 58 pagine del testo firmato ieri da Fiat, Fim, Uilm, Fismic e Ugl, lo stesso che da gennaio saranno chiamati ad accettare i 4.600 lavoratori di Pomigliano. Là dove si legge che ‘le parti convengono sulla natura del presente contratto quale contratto collettivo di lavoro di primo livello in quanto del tutto idoneo a sostituire, per le società che intendono aderirvi, il Contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici, sia per estensione del campo normativo sia per il livello dei trattamenti previsti, complessivamente e individualmente equivalenti o migliorativi’. Dunque non un contratto per una singola fabbrica che dal 2012 realizzerà la Panda e nemmeno solo un contratto destinato alla filiera dell’automobile ma un vero e proprio contratto alternativo di categoria al quale potranno aderire tutte le aziende metalmeccaniche che lo desiderano fino a costituire, per paradosso, una sorta di Federmeccanica 2. Certamente l’accordo, che non piace alla stampa di sinistra, sblocca 700 milioni di investimenti e consente di aumentare la produttività. Ma secondo Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, è gravissimo, in primo luogo, che si accetti di fare un accordo che esclude un’organizzazione sindacale e, quanto ai termini dell’accordo stesso, “siamo in presenza di un peggioramento secco delle condizioni di lavoro: siamo di fronte a una riduzione delle pause sulle linee di montaggio, all’accettazione di un sistema di lavoro che aumenta le saturazioni e i ritmi, a delle limitazioni, e penso a chi è malato, al fatto che le persone non hanno nemmeno più il diritto di poter collettivamente contestare o contrattare per migliorare le condizioni all’interno dei luoghi di lavoro”. Per Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil e oggi europarlamentare del Pd, la Fiom ha fatto bene il proprio lavoro, mentre il candidato alle primarie del Pd come sindaco di Torino, Piero Fassino, ha criticato le posizioni assunte dalla Fiom. “Di fronte ai problemi veri non si fugge, bisogna sporcarsi le mani”, ha commentato. “La Fiom si è arroccata. E’ molto velleitario alzarsi dal tavolo e non firmare, ma così il sindacato non difende i lavoratori, anzi li espone a un rischio maggiore. La tutela della rigidità non funziona più: oggi ci vuole il governo delle flessibilità”. E tanto per aumentare le divisioni della sinistra, il segretario Pier Luigi Bersani, punta il dito contro lo strappo sui diritti sindacali, dichiando che : “è ingiustificabile e pericoloso e va corretto”, pur riconoscendo l’importanza degli investimenti di Fiat per i territori interessati, per il futuro industriale dell’Italia e per i redditi dei lavorato. Quanto a Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, l’accordo siglato tra Fiat e sindacati e’ innovativo, mentre la Fiom che non lo ha firmato “e’ un problema e un danno per le aziende e per i lavoratori che vengono penalizzati in termini di occupazione e retribuzione”. Per Sacconi il programma è pragmatico, utile e non ideologico e Avvenire, scrive nell’editoriale di oggi:”Il nuovo contratto rappresenta allo stesso tempo la chiusura di una fase storica e il potenziale detonatore di una serie di cambiamenti”. Per il quotidiano dei vescovi, nell’intesa per Pomigliano, cosi’ come per Mirafiori, non viene conculcato alcun diritto fondamentale dei lavoratori, la democrazia non e’ affatto posta in discussione, semmai ‘esaltata’ dal ricorso al referendum. Piu’ semplicemente, dopo anni di immobilismo, il cambiamento di scenario nell’industria automobilistica sta facendo emergere le contraddizioni del nostro sistema, obbligando a compiere una scelta netta di modello tra conflitto e antagonismo da un lato; riformismo e partecipazione dall’altro. E a ben guardare, e’ la stessa sfida che attraversa come una faglia sotterranea la gran parte dello schieramento politico”. Per Massimo Giannino, editorialistac din La Repubblica, c’è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la “terra incognita” indicata da Marchionne. Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell’84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del “salario variabile indipendente” e salvarono l’Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l’inflazione. La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono. Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo. Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini. Per Giannino, insomma, ha vinto Il modello del capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, che ha spazzato via per sempre il Welfare universale della Vecchia Europa ed ha vinto, complice la politica, con col ricatto Fiat che, ho si accetta questo o il Lingotto va altrove. Ed evidentemente la situazione Fiat non pare proprio stabile se in borsa il titolo si muove in terreno negativo e cede l’1,40% a 14,78 euro. . Gli esperti di Banca Akros (rating buy con target price a 18,3 euro) apprezzano la notizia dell’intesa su Pomigliano e segnalano che rappresenta un primo passo di una roadmap che porterà a un’ampia ristrutturazione delle regole del lavoro in tutti gli impianti italiani. Mentre l’opposizione a oltranza della Fiom non dovrebbe creare problemi significativi alla realizzazione del progetto. Ma, per ora, i dati di borsa ci dicono il contrario. Il problema è che, in Italia, solo 3 macchine su 10 sono Fiat e questo non si deve certo ai lavoratori. Abbiamo una quantificazione di massima dell’investimento pari a 20 miliardi. Ma oggi sappiamo come saranno spesi, per Pomigliano e Torino, solo un miliardo e mezzo. Sarebbe utile conoscere in quale direzione andranno gli altri 18 e, al contempo, dovremmo anche incalzare il governo che è stato completamente assente e che ancora non si neanche posto il problema di una politica industriale. L’intesa dovrebbe includere una parte aggiuntiva volta a definire forme di partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici al capitale e agli utili dell’impresa, come anche alle sue scelte strategiche, attraverso lo sviluppo dei diritti di informazione e di consultazione e, in prospettiva, con la presenza nella “governance” dell’impresa in linea con le migliori esperienze europee, secondo l’ispirazione dell’articolo 46 della nostra Costituzione. Il conflitto sorto intorno alle vicende di “Fabbrica Italia” si sarebbe potuto ridimensionare in presenza di un governo impegnato a sostenere, come avviene negli USA, in Francia, in Germania, i profondi processi di ristrutturazione del settore automotive attraverso la politica industriale ed una visione strategica all’altezza del potenziale manifatturiero dell’Italia. Invece, il Governo Berlusconi ha rimosso i programmi di politica industriale avviati dal Governo Prodi e si è dedicato ad alimentare la divisione tra le forze economiche e sociali. Ma, di fatto, allo stato attuale, l’unico a resistere al ricatto Marchionne e a strepitare contro il “vuoto” del governo, sono rimasti solo Landini e Vendola: gli unici che ancora pronunciano parole come pause, straordinari, democrazia sindacale. Proprio ieri è stata data notizia della costituzione di una associazione, “Lavoro e libertà”, a sostegno della Fiom. Tra i fondatori, l’ex presidente della Camera e leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti e l’ex segretario della Cgil, Sergio Cofferati (ora eurodeputato del Pd). Ma ci sono anche intellettuali e studiosi di spicco, da Luciano Gallino a Rossana Rossanda, da Mario Tronti a Stefano Rodotà. Direttamente contro il Pd si rivolge invece Vendola, sfidando i dirigenti del partito a non avere paura di Marchionne e a respingere il disegno di “un restringimento secco degli spazi di democrazia” per cui “chi non è d’accordo non ha più diritto ad esistere nei luoghi di rappresentanza dei lavoratori”. Secondo Vendola, la posizione che si prende sulla vertenza Fiat è “un punto dirimente per costruire una coalizione” di sinistra. Ma dal Pd arrivano numerose risposte negative al leader di Sel e a difesa di Marchionne e dell’accordo. L’ex presidente del Senato ed ex segretario della Cisl, Franco Marini, dice che se fosse stato ancora un sindacalista avrebbe detto di sì all’accordo con la Fiat, “perché si parla da troppo tempo di avvicinare la contrattazione al posto di lavoro”. Giorgio Tonini, veltroniano, sottolinea che il Pd “è il partito del cambiamento e non della conservazione”, un concetto analogo a quello espresso da Beppe Fioroni. E la deputata Alessia Mosca, vicina a Enrico Letta, definisce Vendola “un teologo conservatore che lucra sulle paure dettate dalla crisi”. E’ proprio vero: in certe battaglie democratiche portano più avanti l’umanità coloro che sono definiti conservatori. Nel suo ultimo libro (“C’è un’Italia migliore”, edito da Fandango), Vendola dice che oggi vige da noi : “Un regime oscurantista che tenta di costringere un popolo meraviglioso a vivere in un moderno medioevo, un medioevo fatto di donne umiliate fino alla perdita della propria vita, di omossessuali discriminati, di oppositori democratici schiacciati senza pieta’”. E, forse,ha ragione. Rodney Stark, docente di storia negli USA, qualche tempo fa nel saggio: “La vittoria della ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”, ci ricordava “Molto è stato scritto sui motivi per i quali, a partire dal Medioevo, l’Occidente ha sopravanzato il resto del mondo. Le spiegazioni più comuni hanno riguardato la felice configurazione geografica, l’espansione dei commerci, il progresso della tecnologia. Ma è stato completamente trascurato un fatto: nessuno sviluppo sarebbe stato possibile senza una profonda fiducia nella ragione, che affonda le proprie radici nella religione cristiana.(…)Ciò rafforza l’idea che il Medioevo non sia stato un periodo di decadenza o di stasi (i famigerati «Secoli Bui»), ma al contrario la culla delle future glorie dell’Occidente.(…)Quest’opera dimostra che ciò che più ammiriamo della realtà che ci circonda – il progresso scientifico, la democrazia, il libero commercio – è in larga misura dovuto al cristianesimo, e che noi oggi siamo gli eredi di questa grande tradizione”. Un medioevo molto diverso da quello che Vendola descrive ed ascrive a questi giorni pieni di buio, un po’ dovunque, di proclami e di promesse (l’ultima, di Berlusconi, di “spazzare Napoli” per Capodanno), non mantenute, di diritti calpestati e di gente spaventata e presa per fame.
Carlo Di Stanislao
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