Non poteva iniziare peggio questo nuovo anno per Asia e Africa: continenti già funestati da miseria, endemie distruttive, altissima mortalità infantile, instabilità politica e drammatica guerra etnica, religiosa e tribale. Dopo l’eccidio dei Cristiani di rito Curdo ad Alessandria l’ultimo dell’anno, è stato una escalation di violenze, con l’assassinio, il 5 gennaio, di Salman Taseer, governatore del Punja, perché aveva osato pronunciarsi a favore della grazia ad Asia Bibi, la madre cristiana messa a morte dalla giustizia pachistana in virtù di quella legge anti-blasfemia, che sta diventando sempre di più un’arma sofisticata della persecuzione ai danni dei cristiani in Pakistan e, due giorni dopo, cioè il 7 gennaio, un attentato suicida a Spin Boldak, cittadina del sud dell’Afghanistan al confine con il Pakistan, che ha causato la morte di 17 persone ed il ferimento di altre 20. In Iraq poi, Moqtada al-Sadrnella, leader radicale sciita, appena rientrato dal un esilio volontario di quattro ani in Iran, ha tenuto il suo primo discorso ufficiale nella città santa di Najaf, 160 km a sud di Bagdad, invitndo a dire “no all’America” e incitando alla resistenza. “Siamo ancora combattenti – ha detto Moqtada al-Sadr rivolto alla folla -. Resistiamo sempre all’occupazione, militarmente e con ogni altro mezzo”. Ai seguaci in delirio, il 37enne leader religioso ha chiesto di concedere una possibilità al nuovo governo iracheno di Nouri al-Maliki. “Se serve il popolo e la sua sicurezza, noi siamo con lui”, ha affermato Moqtada al-Sadr, “se non lo facesse”, ha aggiunto, “ci sono modi per sistemare le cose, ma sono solo politici”. Del governo guidato dallo sciita Maliki fanno parte sette ministri legati all’imam radicale, che può contare anche su 39 deputati in Parlamento. Proprio il coinvolgimento nel nuovo governo, scrive La Repubblica nella pagina estera di oggi, sembra aver spinto Moqtada al-Sadr, in un altro passaggio del suo discorso, ad affermare che l’uso della forza è proprio solo “agli uomini d’armi”, lasciando intendere così il suo riconoscimento dell’autorità delle esercito e della polizia irachena, visto anche come un messaggio a quanti temono la ricomposizione della milizia dell’imam, l’esercito del Mehdi, che ha combattuto contro le truppe americane ed è ritenuta responsabile delle stragi settarie nell’ambito della guerra civile tra sciiti e sunniti che ha insanguinato Bagdad e il sud dell’Iraq nel dopo-Saddam, finché lo stesso Sadr non ordinò nell’agosto 2008 la sospensione delle attività militari. Non meno drammatica la situazione in Algeria, Tunisia e Sri Lanka, con rivolte popolari contro il governo per il rincaro dei generi alimentari di prima necessità. In Algeria le manifestazioni sono iniziate mercoledì in diverse città del Paese, per dire basta ai rincari dei beni di largo consumo, zucchero, grano e olio in testa. Per sedare la rivolta il governo ha promesso di abolire la tassa introdotta sui prodotti alimentari e il ministro della Gioventù ha invitato al “dialogo pacifico”. Ma le manifestazioni di piazza, che hanno già causato una vittima, non accennano a placarsi ed anzi, le voci di un’imminente penuria di farina fanno temere altre violente manifestazioni popolari. La rivolta in Tunisia è scattata dopo che un ambulante di legumi sprovvisto di licenza di 26 anni, che ha visto sequestrare la propria mercanzia dalla polizia municipale di Sidi Bouzid, ha preso della benzina e si è dato fuoco davanti alla Prefettura. Il giorno dopo, il 5 gennaio, sono iniziati duri scontri ed il 6 si è svolto uno sciopero degli avvocati in appoggio ai rivoltosi. La cosa singolare -sostiene Le Monde- è che in Europa si è scelto di silenziare ciò che avviene a Tunisi e nel resto della Tunisia, a conferma che è saltato il patto sociale tra il governo e la popolazione. I francesi però si interessano di Tunisia, ma in realtà dovrebbe essere l’Italia a guardare con attenzione a ciò che succede a Tunisi. Ormai Sicilia e Tunisia sono vicinissime, e il passaggio di persone verso l’Italia è continuo. Sarebbe bene che passassero anche merci, che si facesse business seriamente, invece di perdere occasioni e di organizzare conferenze su conferenze sul Mediterraneo. Oggi, poi, iniziate rivolte popolari contro il rincaro dei rezzi alimentari ance in Sri Lanka, nazione funestata una recente carestia e con un subbuglio etnico in sempre crescente ebollizione, con i Tamil che da decenni cercano di fuggire alla tirannica maggioranza singalese, protetta dal governo militare. Per calmierare il forte aumento dei prezzi delle derrate agricole che sta creando da mesi problemi nelle fasce più povere della popolazione, lo Sri Lanka ha deciso di mobilitare l’esercito per acquistare i prodotti direttamente dagli agricoltori e rivenderli poi ai cittadini. Lo ha reso noto il ministero delle Difesa a Colombo. Squadre militari visitano le zone di produzione agricola del paese acquistando patate, cipolle, pomodori ed insalata; ma non si placa neanche così la protesta popolare. Tre giorni fa, il Paese, dove il 4 gennaio il governo ha istituito una commissione di studio per stilare una politica sull’abbigliamento nei luoghi pubblici, che ha già proibito le minigonne, aveva abbandonato per sempre il vecchio nome di Ceylon, abolito già nel ’72, da istituzioni e aziende,tranne che nel caso Ceylon Tea label, il celebre marchio di te’ importato in tutto il mondo, che invece ora si chiamerà Sri Lanka Tea label, aprendo la strada ad altri cambiamenti nominativi, come, ad esempio,la Bank of Ceylon. Cambiamenti, come si vede, nei nomi, ma non nei problemi. Ance se oggi lo Sri Lanka è una repubblica democratica a impronta socialista ed ha il più alto reddito pro-capite nell’Asia meridionale, i problemi d’indigenza riguardano ancora largi strati della popolazione.
Carlo Di Stanislao
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