L’ultimo film di Clint Eatwood, apre in maniera eccelsa il nuovo anno cinematografico, dopo quello passato, memorabile (nel bene e nel male), per “L’uomo nell’ombra” di Roman Polanski, di hitchcockiana perfezione formale, premiato con l’Orso d’argento a Berlino, l’orrendo Leone d’oro a “Somewhere” di Sofia Coppola, la non esaltante Palma d’oro a “Zio Boonmee” che si ricorda le vite precedenti, diretto dal tailandese Weerasethakul ed il bellissimo, ma non premiato, “Louders”, buñueliano esordio della austriaca Jessica Hausner, uno dei film più originali della stagione che si è appena conclusa. Mentre noi ci dobbiamo accontentare (ma è già molto), della leggerezza demenziale di Checco Zalone, che ci allieta l’anima con la parodia dell’italiano medio, un po’ ignorante, drammaticamente qualunquista, dall’America arriva questa “corazzata”: un film difficile e complesso che, ci dice quanto sia importante tenere vivo il ricordo delle persone che muoiono e allo stesso tempo quanto sia indispensabile e doveroso lasciarle andare. “Hereafter” inseguito inutilmente dai Festival di Venezia e Roma e presentato invece a Torino, giunge finalmente sui nostri schermi, capace, come sempre nel cinema maturo di Eastwood, di affrontare temi delicatissimi e non facili, con una singolare e personale sintassi cinematografica. Questa volta le strade dolorose di tre personaggi, che in diverso modo hanno contatti con l’aldilà, inaspettatamente s’incrociano per condividere dolore, consolazione e speranza. Una trilogia dell’aldilà, tre storie diversissime e in fondo tutte e tre molto umane e molto penose, di quella pena che ingrigisce l’anima e che alla fine, per caso, s’incontreranno. In questo ennesimo capolavoro della’ex attore con solo due pose (“con o senza sigaro”, come si diceva), formatosi alla scuola di Siegal e di Sergio Leone, con i morti si parla, li si vede in una luce accecante, li si cerca, si è convinti di poter avere un “contatto” con loro, come medicina, come speranza. Il regista americano sviluppa con le sue immagini delicatissime, i dialoghi e i silenzi perfetti e la consistenza sicura e fluida della narrazione, come potrebbe essere – condizionale obbligatorio – l'”hereafter”, l’aldilà. Lo fa senza il peso di condizionamenti ideologici, verità apodittiche, sprezzanti giudizi che aggrediscono la metafisica, antiquate ideologie new-age, spicciole filosofie impregnate di qualunquismo trascendente. E’ proprio sull’assenza di tesi – e, invece, con molti, molti dubbi, come quando dimostra quanti ciarlatani infestano, con il loro paranormale da strapazzo, il dolore vero di molti – che il film di Eastwood, pur seminando interrogativi inquieti, non spinge le onde sismiche della critica nel campo delicato del proprio credo escatologico, non distribuisce vane illusioni per adescare gli scettici; insomma il mistero sul dopo nel suo film rimane decisamente inalterato. Clint Eastwood ha ottant’anni e si trova davanti un mondo che elude, cancella, ridicolizza l’ineluttabile incontro con la morte, insieme alla tensione, spesso occultata sotto la fattispecie della ragione, del benessere, della paura o della semplice stoltezza, di prepararsi. Ci spiega, con un’arte cinematografica di perfetta e personale consistenza, che è necessario affrontarla con forza e quiete, o almeno con quegli interrogativi che non fanno mai male quando posti in tempo sulla strada dell’esistenza che va verso la fine. Ciò che Eastwood ci consiglia e raccomanda, da alcuni anni ormai, con intelligenza e garbo, la sua personale interpretazione del passaggio dalla vita all’aldilà, è che è quanto mai salvifica la nostra accettazione della sofferenza e del dolore, sia attraverso l’eutanasia, come in Million Dollar Baby, sia con la ribellione al potere mistificatore della politica, come in Changeling; oppure con il volontario e determinato sacrificio/suicidio di Gran Torino. Morti laiche affrontate con lucidità e viste con gli occhi di chi rimane. Ed ora, con questo ultimo film, grazie alla sceneggiatura di Peter Morgan, Eastwood trova l’occasione per sconfinare oltre il tangibile e mettersi in contatto con l’ultraterreno, per dirci che è importante come si è vissuti e come si è ricordati per non cedere alla paura dell’oblio e della morte. Insomma, non smette di stupire, il caro vecchio Clint, o quantomeno non rinuncia, ancora una volta, ad avvolgere lo spettatore con braccia paterne e solidali da detentore (tutt’altro che presuntuoso) di verità condivisibili non tanto in ambito di dottrine spirituali unidirezionali, quanto nei confronti dell’essere umano in sé, inteso come entità sensibile e dotata di capacità critica riguardo la scelta del proprio personale divenire. E, come scrive Stefano Gallone, la semplice forza di volontà, sembra voler dire Clint, porta al riscoprire la potenza di se stessi e a comprendere, una volta per tutte, che, nella più totale indecisione circa il futuro del nostro essere al mondo, vivere ciò che c’è da vivere qui ed ora è la strada più giusta da percorrere, senza mai voltarsi indietro.
Carlo Di Stanislao
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