Quattro i morti nella prima giornata di proteste e viva preoccupazione degli Stati Uniti, il principale alleato del Cairo, con la Casa Bianca che ha esortato “il governo egiziano a recepire le aspirazioni del popolo portando avanti le riforme politiche, economiche e sociali che possono migliorare la vita della gente e aiutare l’Egitto a prosperare. Oggi il nostro ministro Frattini, dai microfoni di Radio Anch’io, ha detto di sperare che il presidente egiziano Hosni Mubarak ”continui come sempre ha fatto a governare con saggezza e lungimiranza”. I militanti egiziani che hanno organizzato al Cairo la manifestazione di protesta, hanno lanciato un appello per una seconda giornata di mobilitazione nel Paese. Sui cartelli dei ragazzi, la faccia di Khaled Said, torturato e ucciso a ventott’anni dopo un fermo in un Internet Point di Alessandria. La scelta della data è stata tutt’altro che casuale: il 25 gennaio in Egitto è la festa delle forze armate, in ricordo dell’attacco delle forze britanniche contro una stazione di polizia avvenuto nel 1952 ad Ismailia. Dalla sua pagina Facebook il gruppo di protesta ha invitato i cittadini a radunarsi anche oggi sulla grande piazza Tahir al Cairo e il gruppo “Movimento 6 aprile”, tra gli animatori delle proteste, è tutt’altro che sedato e la polizia e l’esercito si sono già schierati in assetto antisommossa. Anche ad Alessandria d’Egitto in migliaia di persone hanno marciato ieri, in quello che è stato definito ‘Il giorno della rabbia’. Ma il fatto più curioso è che la vivace giornata del Cairo ha suscitato anche la simpatia dei beduini della penisola del Sinai. Diversi componenti della tribù del villaggio di al-Mahdiya ha infatti organizzato una marcia a Rafah, città sul confine tra Egitto e striscia di Gaza, in solidarietà con i manifestanti del Cairo. In rivolta anche il Medio Oriente con un bilancio di 20 feriti durante le violenze avvenute ieri a Tripoli, nel nord del Libano, tra i manifestanti a favore del primo ministro Rafiq al-Hariri e le forze di sicurezza. Come rammenta Paolo Gallo su La Stampa, c’è stato un momento, nei giorni scorsi, in cui è sembrato che la crisi libanese potesse ricomporsi grazie alla mediazione di Arabia Saudita e Siria. Ma il momento è passato anche a causa del governo di Washington, che si è adoperato per il tracollo della trattativa per non perdere una buona occasione di fare i conti con Hezbollah. Il partito sciita, che molti in Libano chiamano semplicemente “la resistenza”, occupa i primi posti nella lista americana delle organizzazioni terroristiche. A dividere i due schieramenti, quello filo-occidentale e filo-saudita di Hariri e il fronte del partito di Dio sostenuto da Siria e Iran, è stata l’esplosiva questione del Tribunale dell’Onu (Stl) che indaga sull’omicidio di Raiq Hariri (padre di Saad, premier fino a una settimana fa) il giorno di San Valentino del 2005. Le indagini del Tribunale presero subito la via di Damasco, che allora aveva il controllo ferreo dell’intelligence libanese, ma uno scandalo di falsi testimoni ha rovesciato il tavolo e le carte. Il braccio di ferro è arrivato fino alla scorsa settimana, quando Hezbollah ha ritirato i suoi ministri facendo cadere il governo. A questo punto interviene il leader druso Walid Jumblatt, socialista, ex alleato di Hariri, che dopo un paio di viaggi a Damasco da Assad decide di passare al campo dell’8 marzo “in nome dell’interesse nazionale”. Hezbollah con i suoi alleati (il partito sciita Amal, i comunisti, i cristiani del generale Aoun) si trova così ad avere una risicata maggioranza con cui formare un nuovo esecutivo. Ieri i sostenitori di Hariri sono scesi in strada a Beirut, Tripoli, Sidone, la città della famiglia. Hanno protestato, hanno sparato in aria con quel poco che Hezbollah aveva lasciato loro nel 2008. Allora era stata una specie di esercitazione di golpe: Hezbollah aveva preso possesso del centro di Beirut, arrestato sostenitori di Hariri, sequestrato armi. E ora, se c’è qualcuno che può comandare o fare la rivoluzione, quello è sempre Hezbollah. Yasser Arafat che negli anni Settanta era il padrone di regioni intere del paese lo diceva sempre: chi ha i soldi e le armi ha il potere, ma i soldi senza le armi non servono a nulla. Saad Hariri, sunnita, tragico premier e figlio di Rafik, un altro premier ucciso nel 2005, è pieno di denaro. Ma non ha milizia e nelle cantine del suo partito non ci sono arsenali di armi. Hassan Nasrallah, sciita, leader di Hezbollah, il partito di dio accusato di essere mandante ed esecutore dell’eliminazione di Hariri padre, ha i soldi, ancora più armi e dunque il potere. Ed ora viene nominato premier Najib Mikati, esponente di Hezbollah, con Il leader druso Walid Jumblatt di nuovo al centro dell’ennesima crisi, dopo aver di fatto tolto la maggioranza parlamentare alla coalizione filo-saudita e averla consegnata al fronte filo-siriano e filo-iraniano. Dal 2004 al 2008 Jumblat si era apertamente schierato a fianco dell’ex premier Saad Hariri, ma dopo che la sua casa a Beirut e la sua intera comunità drusa del Monte Libano nel maggio 2008 erano state circondate da agguerriti miliziani di Hezbollah e dai loro alleati filo-siriani, Jumblat era tornato a piu’ miti consigli, riprendendo a frequentare il palazzo presidenziale di Damasco. Lo stesso verso il quale si diresse più di trent’anni fa, pochi mesi dopo l’uccisione in Libano del padre Kamal Jumblat, storico leader nazionalista assassinato nel 1979 in un agguato da più parti attribuito, anch’esso, alla Siria. Il 12 gennaio, gli undici ministri del clan Hezbollah si erano dimessi, causando la caduta del governo di Saad Hariri, che si era rifiutato di piegarsi alla loro esigenza di rinnegare il Tsl. Attualmente, mentre i musulmani sunniti fedeli al premier uscente Saad al-Hariri, che ha il sostegno di Occidente e Arabia Saudita, hanno dato vita una “giornata di rabbia” per protestare contro la nomina di Mikati, gli Stati Uniti fanno sapere che un ruolo preminente per il gruppo militante sciita, potrebbe complicare i rapporti di Washington con il Libano e influire sugli aiuti da parte degli Usa.
Carlo Di Stanislao
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