Storia liberamente tratta dal “Il fiore del male” di Carlo Bonini e Renato Vallanzasca e “Lettera a Renato” di Renato Vallanzasca e Antonella D’Agostino. Ovvero la storia di Renato Vallanzasca il boss della Comasina degli anni ’70. Raccontare al cinema la storia di un personaggio negativo come Vallanzasca, non è cosa facile, soprattutto in Italia. Nonostante il bandito Vallanzasca sia stato assicurato alla giustizia e abbia trascorso gli ultimi 30 anni in cella. Non è facile prendere una posizione nei confronti della storia, soprattutto quella recente del nostro Paese e ogni volta che un regista tenta di farlo le critiche e le polemiche impazzano, come nel caso di questo ennesimo film di Placido che racconta una ennesima storia criminale. Perfino tra gli autori si è creata una frattura, tanto che Andrea Purgatori insieme ad Angelo Pasquini ha ritirato la sua firma dalla sceneggiatura quando il fil è stato presentato a Venezia. Le polemiche hanno accompagnato il film dalla lavorazione e sono poi esplolse con la presentazione, a settembre, al Festival di Venezia. Addirittura si sono costituiti veri e propri comitati per boicottarlo, con il deputato della Lega Nord Davide Cavallotto che, alla vigilia dell’uscita nelle sale, ha dichiarato: “Dopo aver pubblicizzato la mafia in tutto il mondo e reso celebre da Nord a Sud la sanguinaria Banda della Magliana di Roma, non ancora soddisfatto il cattivo maestro Michele Placido è salito in cattedra per elevare a eroe lo spietato assassino Renato Vallanzasca. Utilizzare giovani e affascinanti attori allo scopo di sdoganare l’immagine di personaggi che dovrebbero cadere nell’oblio per i crimini commessi è un insulto alla memoria delle vittime e una crudeltà verso i loro parenti”. La storia è quella nota, incentrata su Renato Vallanzasca, criminale molto ben vestito e sanguinolento, con una scia di morti in 70 rapine ed una arrogante spietatezza al limite della psicopatologia. Il soggetto si deve ad Andrea Purgatori e Antonio Pasquini, che contribuiscono col regista, Kim Rossi Stuart e altri, alla sceneggiatura. Il montaggio, elegantissimo, si deve a Consuelo Catucci, la fotografia è di Arnaldo Catinari, sempre riconoscibile, specie nei notturni, mentre la presa diretta è di qualità superiore alla media italiana (ma questo, evidentemente, non è un gran complimento). Il cast è, come sovente con Placido, ad alto livello, con musica dei Negramaro che, prima di firmare la colonna di “Vallanzasca- Gli angeli del male”, avevano già prestato alcune canzoni ai film di Alessandro D’Alatri (La Febbre), Giovanni Veronesi (Manuale d’Amore 2) e di Daniele Gangemi (Una notte notte blu cobalto), che è valsa a Giuliano Sangiorgi il premio per la miglior colonna sonora al Magna Grecia Film Festival del 2010. Rossi Stuart prende le distanze da Romanzo criminale e sfoggia addirittura un’inflessione milanese quasi verosimile, Filippo Timi è sempre lì lì per strafare, però una voce come la sua resta impressa; Francesco Scianna continua a presentarsi bene ed è giovane, per recitare c’è sempre tempo. Anche troppo rilevante il contributo dei personaggi di contorno: da Moritz Bleibtreu a Stefano Chiodaroli, all’ottimo Gaetano Bruno. Il film ha le movenze di un poliziesco ma a cui manca la forza del noir, cioè la capacità di restituire la tensione socioculturale degli anni Settanta. Inoltre, a differenza di “Romanzo criminale”, mostra un Placido che aderisce pienamente al protagonista, con una molto manifesta simpatia per un uomo consapevole del proprio fascino, ma incapace di trovare un equilibrio tra le sue pulsioni, in cui lo sguardo che si vorrebbe distaccato nei fatti non lo è e l’adrenalina che percorre le oltre due ore di proiezione ne fornisce un’ulteriore prova. La storia insiste sullo scontro col clan Turatello, ma smussa le conseguenze di efferatezze e rapine (quando Vallanzasca spara la prima volta sull’auto della polizia, qualcuno resta ferito o ucciso? Mistero). Insomma enfatizza i lati avventurosi del protagonista: le sue donne, da Valeria Solarino a Paz Vega; i complici a cui è profondamente legato; il traditore e tossico, Filippo Timi, che Vallanzasca sgozzerà con le sue mani. Sfiorando appena il contesto storico, che qui è fatto di abiti, auto, pettinature, atmosfere, ma poco di fatti, cifre, clima politico e sociale, mentalità (esempio: quando il bandito evaso va a farsi intervistare da Radio Popolare, due parole per spiegare cos’era quella radio in quegli anni ci stavano bene). Però lo schermo si ricopre di Tg e prime pagine quando Vallanzasca viene arrestato a Roma (sempre mentre fa sesso, è naturale, un capo è un capo) e diventa una “star”. Vallanzasca-Gli angeli del male non ci è piaciuto e lo considerato diseducativo, pur riconoscendogli dei meriti. Ad esempio il colpo da maestri della sceneggiatura di una intervista a Radio Popolare, in cui il criminale parla di se con una lucida follia non dissimile a quella dei tanti mitomani che ci hanno girato e ci stanno girano intorno. Se avesse avuto meno fretta ed esercitato più giudizio (magari riguardandosi i film americani degli anni ’40 sui gangster del periodo), Placido avrebbe potuto condurre ad un ben diverso esito: la biografia di un mitomane omicida, che non ha tanto la vocazione del rapinatore (cosa che crede lui stesso), quanto quella di mettere d’accordo il lavoro sporco per i soldi con lo sfizio di essere il capo sempre e di rappresentarsi sui giornali, in tv, ovunque. Quindi niente al’altezza dei grandi film del passato, come “La furia umana”, o piu’ recentemente, l'”Onore dei Prizzi” del grande J.Huston o, ancora, la saga del “Padrino” di Coppola, ”Gangstar Story” di Arthur Penn, “Cera una volta in America” di Leone, “Quei bravi ragazzi” di Scorzese, “Stato di grazia” di P.Joanou, “Carlito’s way” di De Palma, “Donnie Brasco” di Nike Newell. Molto meno bello ed interessante del recentissimo (2010) “Il Profeta”, del francese Jacques Audiard, figlio di uno dei più celebri dialoghisti di ieri, Michel Audiard, che non cerca mai, a differenza di Placido, in nessun modo, i toni enfatici dell’”eroe negativo” o di qualche emblematica biografia del delitto, ma tenendo la macchina da presa incollata al suo protagonista , cerca di descrivere, fenomenologicamente, la necessità di adattarsi giorno dopo giorno a quello che il mondo circostante gli offre. l profeta è così una specie di lungo apprendistato verso il male che Audiard racconta con una macchina da presa che incombe su Malik , un po’ come sembra incombergli addosso un destino che lo vorrebbe ridurre a ingranaggio di un gioco più grande di lui e che lui cerca di orientare a proprio favore. Non come il Vallanzasca di Placido, un uomo violento e vanesio, in cerca di visibilità, vuoto e violento, ma travestito da eroe. Insomma, ciò che rimprovero al film (in nutrita compagnia, per una volta), è di non aver sufficientemente reso l’idea della negatività di Vallanzasca e di aver in qualche modo ingenerato l’idea che possa essere un eroe positivo.
Carlo Di Stanislao
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