Mi chiamo Vittore Bocchetta, sono nato nel novembre del 1918.
Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti.
Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino Verona, dove sono stato interrogato, torturato e poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo e dove ho subito altri interrogatori dalle SS. E da lì, insieme ai compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD.
E da lì, nelle celle del sotterraneo, dove ho trovato altri prigionieri che erano stati torturati, sono stato condotto al campo di concentramento di Bolzano, insieme a questi compagni, considerati pericolosi e siamo stati chiusi nel blocco E, da cui uscivamo solo per un’ora al giorno a prendere aria, e dove siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi sono stati fucilati e un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dalla baracca E, insieme ad altri circa quattrocentocinquanta detenuti. A Bolzano siamo stati caricati in un vagone, eravamo circa centotrenta, centocinquanta… Uno dei famosi vagoni carri bestiame delle ferrovie tedesche, e da lì condotti in Germania al campo di Flossenbürg.
Nel pavimento del vagone, io e un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri: gli anziani, gli altri prigionieri ci hanno impedito la fuga. Tentativo di fuga perché si poteva anche morire: si doveva scendere in mezzo le ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, e accettare le sorti imposte adesso, non più dalle SS, ma dagli stessi compagni. Dopo un paio di giorni, il treno si è fermato. Noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo; eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso… Il treno si è fermato, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua: l’unica cosa che abbiamo visto.
Dopo non so quanto tempo – due o tre giorni – siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per cinque fino al piazzale del KZ, dove abbiamo visto questa grande caserma della SS (tuttora esistente), e dove si apriva il campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non che fosse un campo di sterminio. Infatti, su uno dei piloni di sostegno (pilone sinistro di sostegno del cancello d’entrata), c’era una placca con scritto Arbeit macht frei. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino: il nostro gruppo, specialmente, era già stato condannato a morte. Il nostro destino sembrava migliorare con queste parole di “andare a lavorare”: voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte, perché sono morti ugualmente, di stenti, di percosse e di sevizie nei successivi due mesi.
Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Lì, siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, dove c’era una scala che scendeva, una scala di ferro. Prima di scendere queste scale che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti! Con me c’erano persone di alta stima da parte mia. C’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni molto austere, e questa austerità, credo, è stata eliminata con un colpo di spugna. Soltanto dopo la spoliazione e la rasatura di tutti i nostri peli – in tutte le parti del corpo -, l’ispezione fisica, una volta nudi e puliti siamo stati spinti per queste scalette e siamo entrati in questa cantina (scantinato grande), dove c’erano le famose docce. Qui, siamo stati ricevuti da una squadra di demoni, che avevano dei pezzi di gomma, lo Schlagen, o il Gummi – come si chiamava – che usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate queste grida furibonde di questa gente che non diceva parole, urlava, urlava in una maniera sconnessa; eravamo terrorizzati, siamo stati spinti come anime infernali, in preda al panico… Un caos tra di noi. E già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza… Uno contro l’altro, una grande confusione. Queste grida che continuavano finché si sono aperte le docce, e da lì le percosse sono continuate – come dico – percosse completamente irrazionali, senza nessuna logica apparente… Perché poi la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a scrollarci di dosso la nostra personalità, la comunione tra di noi, disorganizzarci, e soprattutto spaventarci e annullare la nostra volontà.
Nel secondo capannone ci siamo rivestiti. Ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultima possessione che avevamo, che era la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini (cosa molto strana perché era roba italiana), e poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli, erano una specie di ciabatte con la suola di legno, e abbiamo avuto la nuova personalità. Abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero, un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo.
Venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove noi eravamo circa 400, 450 (adesso il numero non lo so), eravamo in soprannumero (i posti nella baracca saranno stati un centinaio). I posti per dormire erano questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche questo non destinarci con ordine era studiato, perché serviva proprio all’agone… Alla lotta tra di noi… All’istinto di superarci l’un l’altro per occupare il posto – non si sa contro chi o per chi -. Una volta occupate queste cuccette, pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare, non dico riposo, ma quiete, tornava il caporale “Raus!”… E ci faceva uscire. Fuori, faceva molto freddo, eravamo in settembre, infatti, abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni… Ci stavamo mezz’ora, o un’ora, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e poi, ci faceva uscire… Così per diversi giorni.
Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro, infatti, dopo un paio di giorni dal nostro arrivo il caporale ci ha fatto uscire, mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che l’avevano i denti d’oro, o il dente d’oro, che venivano poi raccolti in una…
Queste sono state le prime emozioni, ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo entravano di continuo degli “zebrati puliti”, quelli che erano addetti a lavori non sporchi, che noi abbiamo poi chiamato monatti, due che portavano delle barelle.
Entravano con delle barelle vuote accompagnati da questi spettri, queste figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne. Uno scheletro coperto di pelle, un teschio non morto ma ancora vivo, però non vivo, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria: occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, non vedevano. Erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti… Ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente, anzi quasi sicuramente incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina, che già è un nome, è un eufemismo per quello che era considerata latrina lì. Era una buca scavata, una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera; in questa buca c’era un sostegno nel mezzo, bisognava appoggiarsi per non cadere dentro, e qui si gettavano le nostre viscere. Lì vicino a questa latrina, a questa fossa, venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surrealistiche, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi
Poi veniva un monatto, uno specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quello che era la gerarchia del campo. C’erano i puliti e gli sporchi, pigliavano una manica di acqua gelata, e irroravano continuamente questi corpi. E insomma molti morivano lì, però c’era già una morte cerebrale. Poi, quando noi dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo scavalcare, camminare su questi corpi e per fare… Per evacuare, prima, quando non c’erano i corpi, ci si attaccava alla trave, poi… Da lì ci siamo abituati alla morte… Abbiamo cominciato ad ancorarci per non cascare nella buca ai piedi o alle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti: sempre con queste lettighe vuote, riempivano le lettighe di due tre corpi e li portavano – li vedevamo in questa specie di sentiero serpeggiante, dall’orlo di questa scarpata – verso questo crematorio. Qualcuno l’ho visto; qualcuno che aveva ancora dei movimenti, che si muoveva ancora – però non credo che fosse vivo, forse erano ultime contrazioni o forse erano ancora vivi -. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati in terra; poi c’erano anche delle vasche dove venivano preparati, spogliati, quelli che non erano ancora spogliati… Poi, venivano messi nei forni. Di forni ce n’era uno solo, e questo forno lavorava continuamente, notte e giorno, esalando queste emanazioni terribili, e serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75 mila anime… Se anime si possono chiamare.
Usciti dalla quarantena, siamo arrivati in questo piazzale, ci hanno radunato, hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, perché si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra: cioè ci si offriva un po’ uno scampo. Del nostro gruppo del CLN di Verona, sono stato io – e anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire che non dovevamo piegarci, andare a fare le bombe che bombardassero, o le munizioni che uccidessero i nostri cittadini e i nostri paesi… E abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, c’era della gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi Guglielmo Bravo, un geniale meccanico, anche lui che poi mi morì nelle braccia un paio di mesi dopo. Non so, in questo momento poteva essere un atto di protesta, ma questo atto di protesta pian pianino è svanito, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata a superare queste cose, queste personalità, queste amicizie. L’amicizia ad un certo momento veniva levata. Comunque in questa piazza ci hanno denudato e ci hanno segnato secondo il nostro fisico in tre categorie: 1, 2, 3… Con dei numeri scritti sul petto con un inchiostro rosso. Da lì ci hanno portato, quelli che avevano il numero 3, come me, e un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte, ci hanno portato a Hersbruck. Hersbruck era un campo di lavoro (in Germania si sta scoprendo solo ora che cosa è stato Hersbruck), iniziato nell’agosto del ’44, che ha avuto otto mesi di vita perché è stato poi chiuso nel marzo del ’45, ed era un campo fatto per ospitare – chiamiamolo ospitare -cinquemila individui. Le forze del campo non hanno mai raggiunto i quattromila. Nel giro di otto mesi, sono morti in ventimila circa: diecimila a Hersbruck, altri diecimila, se non di più, (il campo non aveva crematorio), venivano portati moribondi – non ancora morti -, a Flossenbürg, in quel crematorio. Quindi quei corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto… Congelati per l’intenso freddo dell’inverno, vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, poco prima dell’evacuazione del campo, e bruciati nei boschi vicino Hersbruck, dove si svolgeva questo lavoro: consisteva in scavi di enormi gallerie, che non si sapeva a che cosa sarebbero servite… Perlomeno, certamente noi, potevamo saperlo.
Ho visto morire uno a uno i miei compagni: la maggioranza di essi mi è morta nelle braccia. La fame, le torture, ma più che le torture, l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, la mors tua, vita mea. Le torture venivano fatte da questi, che erano a maggioranza polacchi, ucraini, da questi Kapò, il cui bisogno di sopravvivere arrivava a degli estremi di crudeltà inenarrabili… Poi, ognuno di loro, a loro volta, soccombeva a uno che fosse più crudele di loro. Come dico, come ho detto, ho visto morire dei personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia di persone.
Il campo di Hersbruck cominciava… Appena arrivati, siamo stati subito messi in colonna; ci hanno dato questa baracca – la baracca 14, quella degli italiani -, dove ci hanno portato poche ore dopo. Ci hanno fatto mettere in fila in queste colonne, uscire dal campo, con questa specie di zoccoli, seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci. Ci facevano attraversare la città, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo, attraverso due file di case, da cui i tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, dei soldati: potevano anche essere della… Qualunque cosa, che abitavano fuori dal campo e, insieme a loro, c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due o tre cani. Questi cani venivano allenati in queste marce – questo lo devo dire con certezza, perché è una cosa provata – e venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa sette chilometri, sei chilometri e mezzo, poi arrivavamo. Questi cani – che erano delle bestie feroci, si può dire – ci accompagnavano fino alla fine di questi sei, sette chilometri, dove ci aspettava un altro dei soliti treni, dei soliti vagoni. Salivamo su questi vagoni, e ci stipavano in maniera che non ci si poteva mettere un capello – tanto è vero, che io ho imparato a dormire in piedi in quella mezz’ora -. Quaranta minuti di cammino, nel tragitto del treno, altri sette, otto chilometri. Infatti, questa era la distanza, una quindicina di chilometri da Hersbruck a Happurg, dove c’era appunto il lavoro. Il lavoro… Bisognava scendere dal vagone, salire, inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi, e si arrivava a degli spiazzi, a delle specie di terrazze, dove c’erano le aperture di queste grotte, di questi tunnel, e lì, in questi spiazzi, ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: la BMW, la Siemens, la Junker ed altre marche che non ricordo, che erano scritte su queste gru, su queste macchine enormi. Lì, c’erano ingegneri tedeschi, ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre mangiare, niente lavorare!”, questo era il concetto che avevano dell’Italia; ci riconoscevano appunto dalla I che avevamo sul triangolo rosso. Qui io ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto la scelta di prendere il picco e pala o il Transport. Stupidamente ho scelto il Transport, e non mi sono reso conto che io ero un po’ troppo alto per quel lavoro, perché dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle e ricordo il primo peso: è stato un’enorme bombola di gas. A tre di noi hanno ordinato di portare questa bombola, e io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate, perché gli altri si abbassavano anche loro, così il peso cadeva su di me, una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo.
Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck, avevamo un particolare, un particolare molto interessante… Nessuno che io abbia visto nel campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. Avevamo la Lagerstrasse. Ci rasavano una volta la settimana, ogni dieci giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli, una striscia in mezzo alla testa che noi chiamavamo Lagerstrasse, questo serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti e in caso di fuga. Infatti, tre prigionieri russi, che erano stati sorpresi e presi, sono stati condannati alla impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck e noi, siamo stati obbligati ad assistere: questo era tutto il sistema del terrore, anche questo ne faceva parte. Ho visto morire questi tre russi con un’indifferenza che mi aveva già un po’ colpito: avevo già assorbito queste cose orribili. Però – anche lì – c’era in questi tre russi una specie di scherno, ho quasi pensato che non erano spaventati per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati… E poi hanno fatto diverse altre esecuzioni.
Sono riuscito a salvarmi appunto per quello che io ho detto sono diventato un esperto, e anche grazie alma mater, vogliamo chiamarla? Perché nel campo si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli (oggi si sta iniziando il suo processo di beatificazione, io sono stato interpellato per testimoniare), un uomo molto intelligente, che sapeva parlare benissimo il tedesco, ed era stato l’unico caso di un italiano a diventare furiere della nostra baracca. Questo Olivelli (che è stato furiere) ci ha dato un po’ di sollievo per un breve tempo. I furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori, Olivelli fu poi ucciso da loro. Ma nel breve periodo, Olivelli mi ha presentato il Doctor, il medico, che era un gobbetto ucraino, del Revier, cioè dell’infermeria, o quel che sia. Olivelli ha detto a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico e che parlava francese, “Questo è un giovane professore”, “Professore di che cosa?”, “Di filosofia”, “Ah”. Ha cominciato a parlare in francese, accennare qualche teoria filosofica, ma soprattutto mi ha chiesto se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscevo Voltaire, “Naturalmente” e se avevo letto Le Candide di Voltaire. Basta, questa è stata la conversazione, il piacere di conoscerlo, ecc. Qualche giorno dopo hanno cambiato Olivelli. Io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber. Mi avevano rubato gli zoccoli, dovevo andare a lavorare scalzo e ho deciso… Una sfida contro di loro: di darmi ammalato. E senza saperlo, in quel Revier, dove sono andato a farmi visitare, ho trovato il gobbetto – queste coincidenze – il quale ha fatto finta di riconoscermi febbricitante; mi ha regalato un termometro: mi ha dato un termometro e non me lo ha ripreso… Quasi un messaggio, e io, per due mesi e mezzo, tre mesi e mezzo, sono rimasto ricoverato in quest’infermeria truccando il termometro, scaldando il termometro. Una volta alla settimana venivamo controllati, e ho potuto resistere fin quando mi hanno scoperto. Questo devo forse ad alma mater, o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare, nei momenti più disperati, delle ancore di salvezza. E questo è stato il dono che ho avuto da Voltaire.
Un giorno, in marzo, sono stati interrotti i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, si è rilassata un po’ la disciplina del campo. Si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito a evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro, e praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di quindici giorni. Uscivano queste colonne… Io sono rimasto perché ero molto malridotto, sono rimasto nel campo e sono stato convogliato con l’ultimo gruppo. Non so quanti saranno stati… Eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa marcia della morte… E io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese, durante uno di questi Transport…. E così sono qui.
Lascia un commento