A L’Aquila le ferite del terremoto sono ancora aperte e terribilmente vive. Il sisma ha distrutto le case, devastato le piazze, frantumato uno dei centri storici più suggestivi del nostro paese, ma le ferite più profonde ad occhio nudo non si vedono: sono quelle personali, familiari e sociali, sono quelle che segnano l’anima, l’emergenza oggi è quella delle relazioni. È lo scenario che dipinge monsignor Giovanni D’Ercole, dal 14 novembre 2009 vescovo ausiliare dell’arcidiocesi dell’Aquila.
Esattamente 15 mesi fa le è stato affidato questo delicato incarico nella sua terra di origine. Il sisma del 6 aprile 2009 ha travolto e stravolto l’Aquila, che città ha trovato quando ci è tornato nelle vesti di vescovo ausiliare?
La città sentiva freschissime le ferite del terremoto. 15 mesi fa eravamo ancora nella fase della prima emergenza, c’era ancora moltissima gente venuta da tutta Italia per aiutare, c’erano i volontari della Protezione Civile, la presenza dello Stato ancora molto viva con tante espressioni. Poi nel gennaio 2010 questa fase è ufficialmente terminata, quello che ancora non sapevamo è che sarebbe iniziata un’altra emergenza, forse più terribile della prima, quella della ricostruzione. Ho paragonato L’Aquila di quei giorni ad una persona colpita da un ictus bilaterale, i medici la possono salvare ma poi c’è bisogno di una lunga e dolorosa riabilitazione, quella che per noi è la ricostruzione. Ma da dove partire per ricostruire? Cosa ricostruire,come? E soprattutto, nel frattempo, che cosa fare? Perchè il problema del terremoto non è soltanto che sono cadute le case, è anche che la gente ha perduto il lavoro, le famiglie si sono disgregate e le persone sono sempre più sole. Nell’anno successivo al sisma si sono moltiplicati i casi di divorzi e separazioni, io dico che le famiglie sono scoppiate. E i figli hanno subito un altro, terribile terremoto. Emblematica poi la situazione dell’Università che in un anno ha visto dimezzarsi il numero degli studenti iscritti, che sono passati da 30mila a 15mila. Io ho un timore, che si finisca per abituarsi a tutto questo e considerarlo normale, per questo sono convinto che il nostro compito, il compito di chi è a L’Aquila per dare una mano, sia soprattutto tenere viva la speranza. Inoltre credo che sia necessario prendere distanze dalla politica partitica, la politica delle contrapposizioni ideologiche a tutti i costi non aiuta e non serve, bisogna invece rimboccarsi le maniche e io so che gli aquilani hanno i numeri e le caratteristiche per farlo.
Quando si parla del capoluogo abruzzese, quando si leggono gli articoli sui giornali o si ascoltano i servizi radiotelevisivi, si racconta solo di moduli abitativi, dei ritardi nell’erogazione dei fondi, del restauri delle strutture, si parla solo della ricostruzione materiale. Più difficile invece spiegare l’emergenza relazionale e sociale …
Il terremoto ha letteralmente fatto fuggire le persone. Hanno lasciato le proprie case così come le proprie abitudini e spesso i propri affetti. Sono passate da una dimora provvisiona all’altra, con i nuclei familiari divisi, si sono trovate all’improvviso disorientate e incapaci di costruirsi una quotidianità. Chi ha pagato in misura maggiore sono gli anziani e i ragazzi. Moltissimi anziani si sono lasciati andare e sono morti nei mesi immediatamente successivi al terremoto, non per le ferite riportate nel fisico, ma per quelle più dolorose del cuore. I ragazzi invece insieme alla loro città hanno visto crollare le loro famiglie, le loro certezze e con esse anche il futuro che fino al 5 aprile 2009 immaginavano straordinario.
In mancanza di strutture e punti di aggregazione, e in assenza di punti di riferimento familiari, come trascorrono il tempo, oltre la scuola, i ragazzi? Che cosa ricercano?
I ragazzi non sanno cosa fare e non sanno dove andare. L’unico luogo fisico in cui possono incontrarsi è il centro commerciale, ma dopo settimane, mesi e dopo oltre un anno passato ad incontrarsi tra i negozi, i ragazzi cominciano a lasciarsi andare. Noi come Chiesa siamo chiamati a star loro vicini, io vado nelle scuole ad incontrare gli adolescenti e spesso al termine dell’incontro vengono a galla tantissime domande, e altrettante richieste. Sono rimasto particolarmente colpito quando una volta mi sono sentito dire “Siamo stanchi di stare al centro commerciale, abbiamo bisogno di un’alternativa”. Di fronte a quei ragazzi mi sono impegnato a fare tutto il possibile affinché questo avvenga al più presto.
Nei giorni immediatamente successivi al sisma si è assistito ad una grande corsa alla solidarietà da tutta Italia. Oggi come possono gli italiani supportare gli aquilani in questa nuova e non meno difficile fase?
Innanzitutto bisogna ricordare che l’impegno del paese nei confronti dell’emergenza terremoto è stata straordinaria e io ringrazio chiunque si sia dato da fare. Adesso bisogna però rispondere all’esigenza di relazione. La mia proposta è quella di moltiplicare i gemellaggi, intensificare i contatti tra le parrocchie, gli scambi tra le scuole, le relazioni. In questo modo si crea l’arricchimento reciproco e gli aquilani smetteranno di sentirsi un soggetto da assistere e si faranno protagonisti insieme ad altri che vogliono costruire un futuro migliore.
In questo contesto così delicato che ruolo gioca la fede? Dopo un trauma del genere negli aquilani è cresciuto il bisogno di Dio oppure si è creato un allontanamento dalla fede?
Entrambe le cose. Per qualcuno il terremoto ha suscitato un grande bisogno di sicurezza, un bisogno di Dio, il bisogno di sapere che non siamo stati abbandonati. Per qualcun altro al contrario si è verificato un allontanamento, si è fatta sempre più importante ed urgente la domanda: perché Dio ha permesso tutto questo? Rispondere non è semplice, ma certamente è chiaro che la questione primaria diventa sostenere le persone in un cammino difficile, accompagnarle e aiutarle a leggere quanto è successo non come una punizione, ma come un’opportunità con la quale Dio vuole dirci qualcosa, come un misterioso gesto d’amore.
Raffaella Frullone
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