La Kidman ha definito devastanti i suoi vent’anni, confusi i suoi trenta e adesso che ne ha quaranta dice di sentirsi padrona del proprio corpo e non schiava della sua immagine. Di certo, anche se è nata in America, avrebbe, in teoria, tutte le caratteristiche delle più sensuali interpreti australiane che sono arrivate nella Fabbrica dei Sogni (Nicole è nata alle Hawaii, ma i suoi genitori sono entrambi australiani e lei stessa ha vissuto laggiù dai tre anni d’età fino all’incontro con Cruise) e sappiamo per certo avere un po’ più di cervello di tante starlette e decisamente molta più personalità. Però le sue labbra gonfie, ulteriormente ripassate al fotoritocco sulla locandina di “Rabbit Hole” proprio non ci piacciono, come non ci ha mai convinto lei, bellissima ed algida, incapace di esprimere calore e vera sensualità. Il questo nuovo film, per il quale è candidata all’Oscar (per la terza volta), si ritrova di nuovo alle prese con un ruolo difficilissimo, quello di una mamma che deve affrontare il lutto per la perdita del figlio di 4 anni, causa incidente stradale. La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’omonimo dramma teatrale vincitore del premio Pulitzer, scritto nel 2005 da David-Lindsay Abaire, autore anche della sceneggiatura del film. Becca e Howie Corbett sono una coppia distrutta dalla morte prematura del figlio Danny: lei rifiuta il coinvolgimento delle persone che cercano di aiutarla e trova l’amicizia in un giovane disegnatore di fumetti; lui invece vive nel continuo ricordo del figlio e cerca di dissimulare la depressione in cui la tragedia lo ha precipitato. Ovviamente il lutto mette in crisi la coppia: ad aiutarli a superare il tutto la madre e la sorella di Becca. Il regista John Cameron Mitchell, utilizza l’espediente narrativo del celebre romanzo di Lewis Carrol (da cui il titolo), per descriverci la dimensione surreale del lutto e l’intera narrazione, così come il finale, è misurata, realistica e coerente con l’intenzione di non rendere banale una storia che avrebbe potuto facilmente cedere al fascino dell’happy ending. Eppure il film non funzione, non trasmette, non prende né commuove e questo proprio per la superlativa, ma freddissima Kidman. Molto più “caldi” sono Aaron Eckhart, nel ruolo del marito, la sua migliore interpretazione dai tempi Thank you for smoking e Dianne Weist, nel ruolo della madre di Becca, che in modo maldestro ma autentico, indica alla figlia una visione del lutto proiettata al futuro. Anche questo film, come Hereafter, si occupa di un tema scottante: l’elaborazione del lutto, ma lo fa, secondo noi, in modo freddo e davvero poco empatico. Hereafter del grande Clint Eastwood, invece, lo ha fatto scommettendo sul lato soprannaturale, che però è solo una scusa e un mezzo per spingerci a riflettere sulla condizione umana. In giro c’è anche un terzo recente film sul tema. Si tratta di Biutiful che propone un Bardem in stato di grazia e un Inarritu finalmente più preoccupato di quel che racconta piuttosto del come raccontarlo e dei trucchi e incastri di montaggio. Il suo è un viaggio nel dolore e nella perdita che sembra senza speranza eppure, proprio al culmine di quel viaggio, mostrare che un uomo quando sta per perdere tutto cerca ancora di avere tutto è una lezione commovente, resa ancora più intensa da un Javier Bardem che già con Il Mare Dentro avevamo trovato alle prese con la morte: lì la desiderava, qui è costretto ad accettarla.
Carlo Di Stanislao
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