Oltre al “Il Cigno nero”, “Il Grinta” “Un Gelido Inverno”, nelle sale in questi giorni e sempre da Hollywwod, due commedie romantiche: come “Amore & altri rimedi”, con Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway, e “Come lo sai”, con Paul Rudd, Jack Nicholson e Reese Witherspoon. Nella prima Jamie Randall, giovane brillante che sfrutta il suo fascino inesorabile e quasi infallibile per farsi strada con le donne e nel mondo di tagliagole del commercio farmaceutico , si innamora di Maggie, seducente spirito libero refrattario a qualsiasi legame. Nel secondo, invece, la vita di Lisa viene improvvisamente sconvolta quando scopre di essere stata tagliata fuori dalla squadra di softball e inizia una relazione con Matty, un bravissimo lanciatore di baseball, egocentrico e narcisista. Le cose si complicano ulteriormente quando nella sua vita arriva George, un onesto uomo d’affari ingiustamente accusato di un crimine finanziario. Per gli amanti dell’azione e della fantascienza arriva, invece, “Sono il numero quattro”, in cui John Smith é in fuga da spietati nemici inviati per annientarlo. Cambia identità, si sposta di città in città con il suo guardiano Henri, ma nella piccola cittadina dell’Ohio che ora chiama casa, John va incontro a inaspettati eventi che cambiano la sua vita: il primo amore, nuovi poteri e un legame con altri con cui condivide uno stesso incredibile destino. Gli amanti dell’horror non potranno perdere l’appuntamento con “The Shock Labyrinth: Extreme 3D”, dove Yukifa ritorno a casa dopo la misteriosa scomparsa da un parco divertimenti dell’orrore avvenuta dieci anni fa. La sua ricomparsa improvvisa mette in moto una serie di eventi terrificanti. Infine, in sala anche l’italiano “Il padre e lo straniero” con Alessandro Gassman. Sullo sfondo di una Roma dai toni medio-orientali si dipana un giallo con protagonisti l’italiano Diego e l’arabo Walid che, uniti dall’amore per i propri figli, purtroppo disabili, stringono una profonda amicizia. Fra tutti il nostro preferito è il film dei fratelli Coen, in cui la giovane Mattie Rossè, determinata ad ottenere giustizia per la morte del padre, ucciso a sangue freddo, incontra il vecchio sceriffo, monocolo, alcolizzato e tutt’altro che al tramonto Jeff Bridges, il quale, con lei ed il ranger texano LaBoeuf, si mette sulle tracce di Chaney (il villain) che, nel frattempo, si è unito a una pericolosa banda. Il film si apre con una citazione dai “I Proverbi”:”I malvagi fuggono quando nessuno li insegue” e rappresenta l’ennesima sfida dei Coen, che stavolta decidono di confrontarsi con un genere che hanno (seppure a modo loro) già esplorato (il western) e, al contempo, con un’icona del cinema di nome John Wayne, protagonista e premio Oscar nel film di Henry Hataway a cui la sceneggiatura si ispira. E, come sempre, i Coen riescono a costruire un’opera totalmente personale pur rispettando (più dell’originale) lo spirito del romanzo di Charles Portis da cui due film (quello del ‘69 e questo) prendono spunto, realizzando un gioiello sul distacco, la separazione e la perdita. In una delle rare interviste (rilasciata nel 2001 all’Arkansas Gazette) Portis ha dichiarato che è da quando ha 12 anni che voleva fare lo scrittore e di essersi sentito alquanto imbarazzato dal successo, al cinema, del suo romanzo del 1968. D’altra parte, lo schivo e difficile Portis, il genere lo conosce a menadito, ma lo prende in giro (mentre lo prende sul serio). Del resto non è il solo a giocare col genere: a suo modo lo fa il coetaneo Cormac McCarthy, anche lui classe 1933, ma del Tennessee. Con Meridiano di sangue firma il “western definitivo”, con Cavalli selvaggi e usando ranch e cowboys costruisce un western post-apocalittico per poi raggiungere il thriller psicologico Non è un paese per vecchi (che, guarda un po’, è diventato anch’esso un film dei Coen). Un western psicologico contro una commedia western, una storia di frontiera, una caccia all’uomo, una faccenda sordida e pericolosa che allo sferragliante armamentario di pistole e speroni, cavalli e whisky, aggiunge un’inimmaginabile, melanconica ironia. Sì, Mattie Ross e i bruti ranger fanno ridere e sogghignare e i Coen su questo hanno di giocato e giocato molto bene. Il romanzo di Portis fu pubblicato a puntate, nel 1968, dal Saturday Evening Post, che appassionò così tanto i lettori, che fu subito chiaro che sarebbe diventata una di quelle leggende americane destinate a durare nel tempo. Impreziosito da uno humour secchissimo, ricco di personaggi rozzamente individualisti e di tematiche squisitamente americane, il romanzo cominciò a vivere di vita propria, pubblicato in varie lingue (da Guna, in Italia) e ristampato in milioni di copie. Le parole “true grit” (True Grit è il titolo originale del libro di Portis, pubblicato in Italia nel 1969 col titolo Un uomo vero per Mattie Ross e più di recente come Il Grinta, in vista dell’uscita del film) divennero sinonimo di quell’ostinazione e del coraggio che sorreggono una persona in circostanze complicate – due dei valori alla base del vero spirito americano. Ma nella storia di Portis c’era molto più del semplice coraggio. Narrata con crudezza dalla zitella durissima in cui Mattie Ross si trasforma una volta che è passato un quarto di secolo da quell’indimenticabile avventura che la coinvolse quando aveva solo quattordici anni, è il manifesto dell’irrequietezza del personaggio americano e dell’eterno conflitto tra il desiderio di avventura e il bisogno di mettere radici, tra la volontà di rimediare ai torti e le conseguenze di tale volontà che si ripercuotono su anima e corpo. I personaggi di Mattie, Rooster Cogburn e LaBoeuf sono costretti infatti a confrontarsi non solo tra loro e con il ricercato che inseguono, ma con i loro stessi cuori indecisi tra ciò che desiderano e ciò che è giusto. Nel film dei Coen, sin dai primi istanti, aleggia un’atmosfera malinconica, non solo insita nella stessa storia e nei suoi personaggi, ma anche nello sguardo registico con cui gli Autori decidono di rendere omaggio al genere, in una sorta di nostalgico rimando al passato. Ecco, perciò, che lo stile crepuscolare e arido, che aveva regnato in “Non è un paese per vecchi”, ritorna qui solenne, adattato ai crismi dell’epoca in cui è ambientato, andando a raccontare una vicenda che non perde mai di mordente grazie anche al carisma dei suoi protagonisti. Bridges sceglie un approccio rispettoso alla figura di Cogburn, ed è inutile tirar fuori paragoni con l’interpretazione ai suoi tempi di Wayne, tanto sono differenti le loro caratterizzazioni, e, d’altronde, la stessa evoluzioni degli eventi. Nonostante, quindi i tratti variopinti e sopra le righe, Bridges non calca troppo la mano e sforna una prova di grande spessore nel limare le bizzarrie del suo Sceriffo dal grilletto facile, offrendoci comunque alcuni dei monologhi più divertenti e riusciti che un cowboy abbia mai pronunciato su pellicola. La vera sorpresa nel cast è senza dubbio la giovane Hailee Stenfield, al suo esordio assoluto sul grande schermo dopo alcune esperienze televisive, e se il buongiorno si vede dal mattino, siamo probabilmente dinanzi all’alba di una nuova stella. L’attrice, da poco quattordicenne, tiene testa, con una bravura rara in età così giovane, ai suoi colleghi, rivelandosi quasi il vero punto magnetico dell’intero costrutto narrativo, con un carisma che speriamo di rivedere al più presto in altri lavori degni di nota. Se la cava bene anche Matt Damon, in un ruolo da comprimario, paradossalmente uno dei più riusciti della sua carriera recente, mentre la strombazzata presenza di Brolin, scritta a caratteri cubitali anche in locandina, si limita pressochè a nulla più di un cameo, seppur fondamentale al fine degli eventi.
Carlo Di Stanislao
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