Un vero “gioiellino”

L’opera seconda può essere micidiale, soprattutto dopo un esordio coronato da successo. Dopo il giallo esistenziale “La ragazza del lago”, premiato nel 2007 dalla Settimana della Critica al Festival di Venezia e vincitore, l’anno dopo, di ben dieci Davide di Donatello, tutti aspettavamo la seconda prova registica di Andrea Molaioli, formatosi alla scuola di Nanni […]

L’opera seconda può essere micidiale, soprattutto dopo un esordio coronato da successo. Dopo il giallo esistenziale “La ragazza del lago”, premiato nel 2007 dalla Settimana della Critica al Festival di Venezia e vincitore, l’anno dopo, di ben dieci Davide di Donatello, tutti aspettavamo la seconda prova registica di Andrea Molaioli, formatosi alla scuola di Nanni Moretti, Carlo Mazzacurati,  Daniele Luchetti e Mimmo Calopresti, classe 1967, molto bravo anche come sceneggiatore. E, anche nel secondo film, nelle sale con 170 copie dal 4 marzo, Malaioli si dimostra all’altezza, affrontando un tema difficile come il caso Parmalat e riuscendo a trovare la giusta distanza rispetto a ciò che voleva rappresentare. Il regista osserva, senza simpatie o condanne, producendosi in un discorso sulla condizione dell’uomo che non concede tempo alla sua coscienza e intraprende un destino di distruzione. Astenendosi  così da coinvolgimenti emotivi comprensibili ma che avrebbero potuto portare fuori strada il film nel suo intento, per così dire, di documentazione cinematografica. Il regista insomma non si “schiera” mai: da una parte non intende sublimare la storia attraverso forti deformazioni cinematografiche che la rendano pregna di risvolti moralistici e dall’altra non tenta mai di incidere troppo  la carne viva dell’immagine filmica con la potenza brutale del secco dato reale, a differenza di autori recenti ed osannati dalla critica progressista come Daniele Caglianone (autore di “Pietro”, premiato all’ultimo Locarno). “Il gioiellino” (dal nomignolo con cui Tanzi chiamava la sua azienda), si concentra su una corporation affogata dai debiti e poi costretta alla bancarotta. Ancora una volta al centro della vicenda c’è Toni Servillo, gelido, impenetrabile e in statuaria tensione nell’interpretazione di un ragioniere fraudolento e trattenuto da ogni coinvolgimento affettivo. Il prestigiatore di Servillo, al servizio del ‘candido’ imprenditore di Remo Girone, che si è fatto da sé a colpi di latte, pallone e viaggi esotici, è l’anima pulsante di un film che approfondisce il comportamento sociale e privato di un imperatore del latte, dei suoi cortigiani, dei suoi cassieri, dei suoi contabili, dei suoi figli e dei suoi nipoti, la cui determinazione si volge in spregiudicatezza, degenerando in avidità e assenza di scrupoli. L’opera, inoltre, è anche stimolante e vivace dal punto di vista stilistico e Molaioli si propone come uno dei registi formalmente più interessanti del panorama cinematografico italiano contemporaneo. Quella che ne risulta è una rappresentazione agghiacciante e distaccata di un mondo finanziario marcio e totalmente privo di quei valori che invece Rastelli/Tanzi non perde occasione di millantare. Un mondo in cui naturalmente gli incroci con la politica (ma non solo) sono stretti e proficui. Nel film la Parmalat diventa Leda (acronimo di Latte e derivati alimentari), Tanzi si chiama Amanzio Rastelli e ha il volto dell’indimenticabile cattivo de “La Piovra”, il direttore finanziario e suo braccio destro Fausto Tonna è Ernesto Botta, un ruvido Servillo disposto a vendere l’anima pur di salvare quell’azienda che è tutta la sua vita. Intorno ruotano una serie di personaggi più o meno inventati: l’ambiziosa nipote del capo (una brava Sarah Felberbaum) che nella realtà è la figlia, due giovani manager (Lino Guanciale e Fausto Maria Sciarappa), una moglie (Adriana De Guilmi) ignara di tutto. L’azione si svolge in un’imprecisata provincia italiana (le scene sono girate nella piemontese Acqui Terme e non a Parma), ma per il resto il film segue un percorso quasi didascalico: c’è il riferimento, sin dal titolo, alla famosa frase attribuita a Tanzi (“A parte quei 14 miliardi di buco, l’azienda è un gioiellino”), c’è il salto azzardato verso i mercati internazionali e la quotazione in Borsa con le azioni sovrastimate, ci sono le mazzette a polizia tributaria e politici (il senatore Crusco della finzione ricorda tanto Ciriaco De Mita!). E poi ecco gli intrecci con le società off-shore e le banche oltreoceano, fino alla radicale contraffazione della situazione economica aziendale. “Tanto il falso in bilancio non è più reato”, commenta a un certo punto la segretaria Carla (Lisa Galantini). Secondo gli sceneggiatori (fra cui lo stesso Malaioli), “il gioiellino” non vuole essere un film di denuncia, ma la storia esemplare di “una banda di manager di provincia,  proiettati sulla scena della finanza mondiale, armati solo di un diploma di ragioneria e di una buona dose di spericolatezza” e non di alta finanza, quella spietata che Oliver Stone racconta in “Wall Street” per intenderci. E allora, non c’è da stupirsi se nell’episodio in cui Rastelli va a battere cassa da un Presidente del Consiglio che possiede una squadra di calcio e racconta barzellette, proviamo solo compassione per questo piccolo uomo alle prese con un mondo più grande di lui. O se la frase che Botta rivolge ai giornalisti subito dopo l’arresto, “possiate morire di una morte lenta e dolorosa, voi e i vostri cari” (Tonna la pronunciò davvero), ci suscita ilarità anziché irritazione. Alla fine sembra quasi che Rastelli-Tanzi e Botta-Tonna abbiano scelto la strada dell’imbroglio non per mancanza di scrupoli, ma per eccessivo attaccamento all’azienda e per un’ignoranza provinciale che sfiora l’ingenuità. Forse, se un difetto c’è, è che la sceneggiatura appare troppo articolata e pensata, ma il risultato finale, grazie al talento del trio Malaioli-Servillo-Girone è davvero superbo.

Carlo Di Stanislao 

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