Amore come droga negli USA ed altre storie di cinema italiano

Maggie è un seducente spirito libero, che per nessun motivo al mondo cederebbe alla tentazione di un legame. Un giorno, incontra Jamie, un giovane dal fascino infallibile sia con le donne sia nella sua attività lavorativa, lo spietato mondo dell’industria farmaceutica. L’evoluzione del loro rapporto prende entrambi di sorpresa e li lascia sotto l’influenza del […]

Maggie è un seducente spirito libero, che per nessun motivo al mondo cederebbe alla tentazione di un legame. Un giorno, incontra Jamie, un giovane dal fascino infallibile sia con le donne sia nella sua attività lavorativa, lo spietato mondo dell’industria farmaceutica. L’evoluzione del loro rapporto prende entrambi di sorpresa e li lascia sotto l’influenza del farmaco più potente: l’amore. Divertente e godibile commediola subissata dai titoloni da Oscar usciti quasi in contemporanea, “Amore  e altri rimedi”, è un film con  momenti di ispirata delicatezza, attori bravi e l’eccellente regia Edward Zwick, campione d’incassi con “Vento di passioni” e “L’ultimo samurai”. Con i tempi della commedia il regista americano consuma i suoi protagonisti in amplessi impetuosi, ritrovando tra le lenzuola ogni segreto del cuore. E proprio il cuore è scommessa e posta di Amori & altri rimedi, con una energia erotica, necessaria a sostenere l’inesausta performance sessuale, incarnata da  Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway, già coppia (in)felice dentro l’idillio pastorale di Ang Lee (I Segreti di Brokeback Mountain). Certo non si tratta di un capolovaro e certamente il film è un po’ slegato, cosi come risulta piuttosto banale la scelta di alcune hits canore, magari piacevoli, ma anche il segnale di una certa pigrizia artistica. Tuttavia, nel complesso, è un’operazione più che passabile. Certamente migliore de “La vita facile” di Lucio Pellegrini o “Tutti al mare” di Matteo Cerami, figlio di Vincenzo (che ne firma la sceneggiatura), la cui principale attività nel mondo del cinema è quella di interprete e tra i lavori più interessanti possiamo citare la partecipazione nel film Colpire al cuore (1982) di Gianni Amelio dove ha interpretato la parte del bambino Matteo e avrebbe fatto bene a non passare dietro la macchina da presa. Insomma, guardandone i prodotti, ci chiediamo se il cinema italiano sia in crisi più per mancanza di fondi che di idee. Difatti, occuparsi di cinema italiano si traduce, da molti anni, ormai, costantemente nell’anteporre all’analisi dei film la querelle sulla sua crisi.  Il dibattito che la affronta, persistendo nei toni di un’acuta polemica in cui il termine “crisi”è stato assunto come appendice o sinonimo di “cinema”, necessita di una ricostruzione per reperirne la genesi, chiarire le sue numerose e complesse articolazioni, tentare di comprendere quanto sia davvero accaduto. In assenza, ovviamente, di un incipit univoco, omaggiando Brecht e l’operazione di straniamento a teatro (del tutto plausibile:Ejzenštejn definiva il cinema come suo livello attuale) risultano basilari le severe dichiarazioni di Quentin Tarantino al 60° Festival del cinema di Cannes (16-27 maggio 2007 privo di cineasti nostrani in concorso), in merito ai film italiani da lui visionati negli ultimi tre anni.Il regista,cinefilo soprattutto delle pellicole italiane degli anni ’60 e ’70, infatti denunciava la mancanza di trame originali omologate sul Leitmotiv di ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali definendo la situazione in toni di autentica tragedia. E non ha cambiato parere quest’anno, presenziando quel Festival, poiché, come si vede, la tragedia si perpetua ancora, con pochi film prodotti e storie tutte eguali ed egualmente scontate. Probabilmente lo sconforto verso il cinema induce non soltanto a riflettere nell’ambito specifico,ma anche ad indagare le forme e i linguaggi storicamente responsabili, tra i tanti imputati, di aver indotto la crisi del cinema: quello della televisione e in particolar modo delle fiction.I l dibattito, che sembra seguire i corsi e ricorsi storici di una polemica dal sapore antico, considerando che a dispetto del nefasto pronostico degli inventori ufficiali (i fratelli Lumières lamentavano l’effimera durata), altri ritennero responsabili le pellicole dell’annientamento del teatro,si è infervorato coinvolgendo uomini di altri media. E poi, perché invece altre cinematografie (statunitense, indiana, francese, tedesca, spagnola, ecc.), sono vive e vegete nonostante la televisione? Tornando a Venezia ultima scorsa, con nessun premio ai film di casa nostra, Gabriele Salvatores, prima ( “I film italiani all’estero spesso non li capiscono e ” Mario Martone poi (“Sbagliato, il cinema italiano è più complesso e va difeso”), hanno espresso il loro autorevole ma non risolutivo parere. . I due registi, 60 anni il primo, 50 il secondo, hanno le loro rispettabili opinioni. Il primo, grazie all’Oscar, è entrato nella sfera degli intoccabili. Il secondo, diviso tra cinema e teatro, ha un percorso più sofisticato, ma probabilmente crede, o spera, di vivere in un paese che purtroppo non esiste. Come se fossimo nella Germania che ha prodotto negli ultimi anni film sul terrorismo spettacolari senza un’ombra di polemica o ricostruzioni storiche del passato recente, finanziate dalla Tv pubblica. Tuttavia, da noi, la crisi profonda di questi ultimi tempi è anche politica. Come scrisse a settembre su Il Fatto Quotidiano Mario Cirino, l’Italia di Berlusconi non ha più una memoria condivisa, e questo ha fatto sì che in Tv  (e al cinema) fosse impossibile realizzare fiction al di là del fotoromanzo che affrontassero il fascismo, il terrorismo, Tangentopoli, la stagione delle stragi (basta parlare con gli sceneggiatori di tutte le fiction di mafia per conoscere la loro insoddisfazione e frustrazione rispetto ai vincoli loro imposti). Niente realtà per favore, a meno che non sottostia alle leggi delle soap-opera! (e allora ci sta dentro tutto, dall’immigrazione all’omosessualità) Ma i produttori oggi che dovrebbero fare? Andare all’estero a cercare fondi, oppure sperare in momenti improvvisi di libertà. Oppure auto prodursi, e girare film a basso costo (“Draquila”). Un film come “Il Divo” su Giulio Andreotti fu possibile solo grazie al governo Prodi. Paolo Sorrentino girò a Montecitorio solo perché Bertinotti era presidente della Camera. Una delle poche cose buone che ha fatto in epoca recente. Insomma, non vedremo mai in chiaro un film come “Draquila”. Sky poi non ha ancora deciso cosa fare da grande, mentre, visto i fondi a disposizione, potrebbe proporsi come unico produttore in grado di giocare a 360° nello scacchiere culturale italiano di fascia alta, visto che La7 ci sta riuscendo ma solo nei prodotti giornalistici, a basso costo ma ad alta qualità intellettuale. Certo, si possono fare dei filmetti autoprodotti molto radicali, ma appena si deve mettere mano al portafoglio o a un obiettivo di ascolto più largo dei soliti circoli alternativi, nessuno si dice disposto, né nel pubblico né nel privato. Il problema è più ampio, e ci fa scoprire un’Italia ferma allo Strapaese, alla Provincia che non viene mai abolita, alla soap-opera come unico genere vincente.  Nell’ultima puntata della straordinaria serie americana Mad Men, ambientata negli anni ’60, una bambina di 10 anni si masturba guardando il primo piano di un agente segreto protagonista di un serial televisivo. Ebbene, questo coraggio, esecrebali se volete, ma nuovo, i nostri autori non lo avranno mai, né al cinema e né in televisione. Nella sua storia più che secolare, il cinema italiano ha vissuto crisi periodiche, da cui però è uscito grazie anche a registi di fama internazionale, che hanno saputo dare pregio “all’ industria dei sogni italica”. Ultimamente, però, si è assistito ad un costante aumento di produzioni di pellicole leggere, per così dire, a tutto discapito della qualità, con un conseguente peggioramento dei contenuti: battute stereotipate, volgari, sceneggiature superficiali e con poche idee, ricostruzione di ciò che forse (e purtroppo) è la realtà e la quotidianità in Italia, uno specchio della società odierna. L’ ultimo fenomeno salito alla ribalta del cinema nostrano con tutti gli onori, è Checco Zalone, suo e nostro malgrado: il suo ultimo film è stato a lungo in testa alle classifiche dei film italiani che hanno incassato di più. La recentissima scomparsa di Dino De Laurentiis lascia un vuoto al momento incolmabile nel cinema italiano. Con lui è andato via un pezzo di storia, così come prima di lui tanti altri attori e registi con la loro morte si sono portati via qualcosa di insostituibile. L’eredità lasciata da questi personaggi da un punto di vista culturale è immensa, ci rimangono intere pellicole ed impareggiabili interpretazioni, premi su premi vinti all’estero quando il cinema italiano era in grado di rivaleggiare anche al botteghino degli incassi con la prorompente macchina hollywoodiana. Un’industria, la nostra, piccola al confronto con quella americana ma spesso in grado di reggerne il paragone, un po’ come la Ferrari, la piccola fabbrica di automobili di Maranello che metteva in fila i colossi Mercedes o Ford ed è diventata simbolo dell’Italia in tutto il mondo. Oggi in Italia mancano film ed Autori di qualità, intendendo con questo che la qualità va ricercata sia nel cosa, sia in come si racconta poiché  girare un  film di qualità vuol dire soprattutto saper adoperare la macchina da presa e avere sempre presente quello che una volta si chiamava “lo specifico filmico”, ovvero l’insieme di tutte le componenti tecniche essenziali per realizzare un film e questo, da noi, spesso manca. Credo, assieme allo sceneggiatore Antonio Tentori, che una possibilità per il nostro cinema, sarebbe quella di ritornare alla produzione dei film di genere, come è avvenuto negli anni ‘60, ‘70 e ‘80. In Italia abbiamo una grande tradizione in questo senso, che va dal peplum-mitologico al western, dal poliziesco al thriller, dall’horror al fantascientifico, dalla commedia sexy all’erotico e altri generi ancora. Sono film, il più delle volte, in grado di reggere il confronto con le altre cinematografie, perché hanno al loro interno una specificità del tutto italiana oltre allo stile stesso dei registi più importanti e innovativi. Ma esistono oggi cineasti tecnicamente e culturalmente all’altezza? Ci vorrebero nuovi maestri come Sergio Leone o artigiani dal mestiere sicuro come Lucio Fulci, Aristide Massaccesi,  Sergio e Bruno Corbucci, Franco Freda, Sergio Cottafavi, Antonio Margheriti, Umberto Lenzi e, forse, anche con pochi soldi,  potremmo uscire dalla crisi.

Carlo Di Stanislao

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