8 Marzo amaro in Egitto, con uccisione di una cristiana di confessione copta, nel giorno dell’orgoglio femminile (e donnista), a seguito di tafferugli esplosi fra cristiani e musulmani, nel quartiere di Moqattam. La donna si chiamava Mina Fares Hanna e, pare ,che ad attaccare per primi siano stati i musulmani salafiti. I tafferugli sono scoppiati martedì sera nel quartiere povero, a maggioranza cristiana, di Moqattam, dove migliaia di manifestanti copti si sono ritrovati per il terzo giorno consecutivo nello spiazzo antistante la radiotelevisione pubblica, per protestare per il recente incendio di una chiesa, mentre un gruppo di musulmani inscenava una protesta sotto gli uffici del governo, tirando nuovamente in ballo il caso di una giovane cristiana, sposata a un religioso copto, che sarebbe sparita dopo essersi convertita all’islam. In quella che e’ ormai diventata una piccola Tahrir copta, i manifestanti, molti con croci di legno messe insieme artigianalmente, hanno predisposto tende e ammassato coperte, perche’ non intendono lasciare lo spiazzo fino a quando non saranno realizzate le loro richieste. Le proteste si sono anche estese ad altre zone della capitale e alcuni copti hanno bloccato una strada a grande scorrimento dove, dicono testimoni, sono stati attaccati da musulmani. I militari hanno sparato in aria. Il primo ministro, Essam Sharaf, che già ieri si era recato alla televisione per incontrare i manifestanti, oggi ha tentato di gettare acqua sul fuoco, rinnovando il suo impegno con copti e musulmani a cercare soluzioni. Ahmed el Tayyeb, il grande imam di Al Azhar, il più prestigioso centro teologico sunnita, aveva condannato l’incendio della chiesa, dopo avere incontrato un vescovo copto. Ricordiamo che, la notte del 31 dicembre, ad Alessandria, seconda città dell’Egitto, vi era stato un attentato, con varie decine di morti, nella chiesa copta Shenuda III, con un seguito di minacce a tutti i cristiani da parte dell’organizzazione terrorista “Stato islamico in Iraq”, considerata uno dei più potenti alleati di al-Qaeda. La Chiesa copta è una chiesa cristiana miafisita (impropriamente detta monofisita, definizione non accettata da copti né dagli etiopi), fondata nel corso del I secolo, ed ancora oggi sussiste sotto il nome di Chiesa cattolica copta. Ancora oggi i copti amano definirsi “miafisiti”, in quanto non credono alla definizione calcedonese “due nature in una persona” ma preferiscono parlare di “unica natura del Verbo incarnato” (secondo le parole di san Cirillo di Alessandria). Questo perché, secondo il dettato biblico, ad ogni natura corrisponde una persona e, affinché la Trinità non diventi “Tetra-“, Cristo deve essere concepito con un’unica natura. La complessa natura degli avvenimenti che caratterizzano la fase tardo-antica della storia egiziana spinge ad attribuirle con estrema cautela la designazione di copta. Tale appellativo, infatti, è senz’altro usato a proposito se riferito alla storia della Chiesa egiziana successivamente agli eventi del concilio di Calcedonia (451 d.C.), quando essa matura scelte teologiche indipendenti da quelle delle altre Chiese, ma la fase che precede questa fatidica frattura deve essere semplicemente intesa come propria dell’Egitto cristiano. Allo stesso modo il termine copto ben si addice alla nuova lingua e alla letteratura che essa produce, ma molto meno ad espressioni artistiche che, a meno di essere state prodotte in seno all’ambiente monastico, è più opportuno definire semplicemente come tardo-antiche. Dopo il concilio Vaticano II, chiesa cattolica e chiesa copta hanno iniziato un cammino ecumenico di dialogo. Questo ha portato nel 1973 al primo incontro, dopo quindici secoli, tra papa Paolo VI ed il patriarca dei copti papa Shenuda III. Insieme decisero di iniziare un dialogo teologico, il cui frutto principale è stata la dichiarazione comune del 12 febbraio 1988 (la Chiesa cattolica era allora guidata da Giovanni Paolo II), che esprime un accordo ufficiale sulla cristologia, accordo approvato dal Santo Sinodo della Chiesa Copta Ortodossa. La dichiarazione comune sulla fede cristologica mette fine a secoli di incomprensione e di reciproca diffidenza. ambito italiano, il termine copto viene spesso riferito alla comunità cristiana dell’Etiopia. Se da una parte è assolutamente innegabile che la Chiesa Etiopica Ortodossa sia figlia della Chiesa egiziana, tanto da essere stata ad essa gerarchicamente subordinata fino al 1955, anno in cui venne eletto il primo metropolita etiope, dall’altra, soprattutto dal momento della conquista araba, il cristianesimo etiopico ha maturato tratti assolutamente peculiari, che poco o nulla hanno a che vedere con quello egiziano. Il termine qubt / qibt (da cui il nostro copto) deriva semplicemente dalla deformazione del greco aigyptios (egiziano), essendo stato assunto dai nuovi dominatori arabi (639-641) per distinguere gli abitanti autoctoni dalla componente etnica greco-romana. Solo molto più tardi il termine ha acquistato un’accezione religiosa. Fino ad allora, i membri della comunità cristiana egiziana si sono autodesignati con vari appellativi, tra cui quello di teodosiani o, meno frequentemente, di giacobiti, dal nome del patriarca Teodosio o da quello del suo collaboratore Giacomo Baradeo, vescovo di Edessa, che li avevano riorganizzati dopo la crisi del concilio di Calcedonia (451 d.C.), in seguito al quale la Chiesa egiziana, insieme a quella siriana, aveva preso le distanze dalla maggioranza delle altre Chiese. Per tale ragione essa suole anche essere definita come anti-calcedonense, in contrapposizione a quella calcedonense o melchita (dal termine melk, “re”), ossia fedele alla posizione del patriarcato costantinopolitano, rispettoso delle scelte del concilio del 451. La diffusione del cristianesimo in Egitto deve essere stata estremamente precoce, tanto da spingere la Chiesa egiziana a rivendicare con orgoglio la sua fondazione ad opera di Marco Evangelista. La penuria di notizie certe circa i primi due secoli rende però inattendibile tale affermazione, tanto che lo stesso Eusebio di Cesarea, nella sua Historia Ecclesiastica, non può fornirne che pochi ragguagli, limitandosi essenzialmente a riportare la lista dei patriarchi che si succedettero in quel torno di tempo. L’unità ella Chiesa egiziana venne inoltre messa a dura prova, all’inizio del IV secolo, dallo scisma meliziano, nato dall’opposizione di Melizio, vescovo di Assiut (Lycopolis), al potere assoluto dell’allora patriarca Pietro I (300-311). La posizione di Melizio trovò ampi consensi soprattutto nella Tebaide, tanto che in quell’area i monasteri meliziani sopravvissero fino all’epoca della conquista araba. Già prima del concilio di Calcedonia, comunque, la Chiesa egiziana aveva acquisito alcuni tratti caratteristici, tra cui una forte rigidità della gerarchia ecclesiastica, il cui controllo era interamente concentrato nella figura dell’arcivescovo di Alessandria, il patriarca, a cui spettava, in modo esclusivo, la scelta dei vescovi da distribuire su tutto il territorio egiziano. Tornando al’attualità, sempre ieri e sempre a Il Cairo, dopo settimane di lotta e rivendicazioni al fianco degli uomini, ribelli mentre nel Consiglio incaricato di riscrivere la Costituzione e delineare il futuro del nuovo Egitto non era stata chiamata nessuna donna, alle stesse donne è stato negato il permesso, da parte dei maschi rivoltosi, di manifestare la loro vocazione alla libertà, tanto che Al Jazeera ha titolato un suo servizio: “Il nuovo Egitto lascia indietro le donne”. “Stanno trascurando il ruolo delle donne nella rivoluzione”, si è lamentata Dina Abou El Soud, 35enne proprietaria di un ostello che ha partecipato all’organizzazione del corteo bloccato,“Penso che sia a causa della cultura e delle usanze del posto”, ha inoltre aggiunto. La protesta era stata organizzata via Facebook, dopo che una commissione nominata dall’esercito ha annunciato alcune proposte di emendamento alla costituzione del Paese. Le modifiche, che gli egiziani dovranno approvare in un referendum il 19 marzo, prevede di imporre un limite di due mandati al presidente in carica e di revocare le rigide restrizioni su chi può candidarsi alla guida del Paese. “Il sangue delle donne che sono state uccise nella protesta è ancora fresco: e già ci stanno tradendo”, ha detto al New Yorker Nawal Al Saadawi, la più famosa femminista egiziana, madrina della rivoluzione, 71 anni, di cui parecchi passati in carcere ma in prima fila, con i suoi capelli bianchi, a Tahrir dal primo giorno. Dalle migliaia di egiziane che hanno, anche loro, compiuto il miracolo abbattendo un regime in apparenza eterno., anche se poche poche hanno partecipato agli scontri a fuoco, moltissime hanno lavorato, per anni e fra grandi pericoli, per la democrazia e moltissime sono scese nelle strade, per manifestare accanto agli uomini, nei momwenti più caldi della contestazione di piazza. L’Egitto è al 120° posto su 128 paesi in quanto a uguaglianza di genere secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, che mette l’accento sulla scarsa performance del paese in quanto a empowerment politico e opportunità economiche concrete per le donne. E le cose potrebbero peggiorare ulteriormente per le donne. Mentre il settore pubblico è stato tradizionalmente più ospitale nei confronti delle donne, l’apertura dell’economia al settore privato le sta penalizzando. Secondo il rapporto 2010 del Population Council, il tasso di disoccupazione tra le giovani tra i 15 e i 29 è al 32% circa, più del doppio del 12% tra i giovani della stessa fascia di età. Le donne in Egitto occupano solo 8 dei 454 seggi del Parlamento e 5 parlamentari sono state nominate direttamente dal presidente. Ci sono solo 3 ministre e nessuna donna tra i 29 governatori. Quando le donne hanno chiesto di diventare giudici del Consiglio di Stato, il tribunale amministrativo più alto, l’assemblea generale del Consiglio ha votato contro, argomentando che l’emotività e i doveri genitoriali delle donne non le renderebbero adatte a tale compito. La decisione è stata ribaltata a marzo in seguito al ricorso presentato alla corte costituzionale dal Primo Ministro Ahmed Nazif ma, di fatto, nessuna donna è entrata a far parte del Consiglio. Inoltre, l’analfabetismo femminile rimane alto: il 47% delle donne rurali e il 23% di quelle urbane non sono in grado di leggere o scrivere. D’altra parte, la condizione femminile egiziana ha seguito diverse evoluzioni non tutte positive e l’appartenenza alla classe sociale privilegiata ha sempre avuto i suoi vantaggi istituzionali e giuridici, ma era una piccola porzione, per contro chi non ne faceva parte non aveva dalla sua nessun sostegno, ciò non faceva l’Egitto diverso da altre società del tempo da questo punto di vista. Anche nell’Egitto antico, la donna non aveva nessun diritto di trovarsi un marito, lo sposo era imposto dal padre che spesso sceglieva seguendo l’ovvio istinto dinastico, mai come in Egitto la consanguineità ebbe uno sviluppo pesante nel sistema sociale, del resto sappiamo bene che la sposa si chiamava in gergo anche sorella e questo dice tutto su quali rapporti ci fossero in seno alla famiglia “allargata”. Con ogni probabilità la donna aristocratica egiziana riceveva una parvenza d’educazione (ed anche qui bisogna andare con le pinze) perché le leggi dotavano entrambi i sessi apparentemente degli stessi diritti, ma tutto ciò che abbiamo è scritto da uomini, possibile che non sia esistita una donna autrice nei vari millenni abbastanza importante da lasciare note scritte o incise ? Qualche dubbio sulla reale applicazione dello stesso ufficio giuridico rispetto a uomo e donna appare abbastanza evidente, pur riconoscendo che alcuni lavori tipicamente maschili erano svolti anche da donne, la società era costruita sui canoni classici dell’epoca, simile per tutta l’area mediterranea e medio orientale. L’immagine che spesso c’è tramandata è della nobile che accompagna il marito in tutte le sue attività e funzioni e questo è bastato per far balenare l’idea che essa potesse disporre d’illimitate risorse in ogni campo. Ma in vero non era e non è così. Certamente molto diffuso era ed è il ripudio della moglie in seguito al passaggio in cariche più importanti da parte di funzionari statali, che spesso venivano dalla società meno nobile e la loro moglie era ovviamente una popolana, ma una volta assurti al rango superiore utilizzavano questo sistema per sbarazzarsi della donna oramai ritenuta inutile andando a sostituirla con alta di lignaggio diverso, in sostanza si trattava di un divorzio unilaterale vero e proprio approvato istituzionalmente e ampiamente incoraggiato dall’entourage del faraone che ovviamente tracciava un indubbio confine elitario. Sono passati quasi due millenni ma, come si vede, alto è ancora il sacrificio delle donne in Egitto, come il molti altri Paesi del Nord Africa.
Carlo Di Stanislao
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