“L’Italia è pronta a dare il suo attivo contributo alla migliore definizione ed alla conseguente attuazione delle decisioni attualmente all’esame delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica”. E’ quanto assicura, a proposito della crisi in Libia, il Consiglio Supremo di Difesa, riunito oggi al palazzo del Quirinale, sotto la presidenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano e la vicepresidenza del premier Silvio Berlusconi. Alla riunione hanno preso parte anche il Ministro per gli affari esteri, Franco Frattini; il Ministro per l’interno, Roberto Maroni; il Ministro per l’economia e le finanze, Giulio Tremonti; il Ministro per la difesa, Ignazio La Russa; il Ministro per lo sviluppo economico, Paolo Romani; il Capo di Stato Maggiore della difesa, Generale Biagio Abrate. Hanno altresì presenziato alla riunione – informa una nota del Quirinale -il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gianni Letta; il Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Consigliere di Stato Donato Marra; il Segretario del Consiglio supremo di difesa, Generale Rolando Mosca Moschini. Come ha scritto due giorni fa Angelo Panebianco sul Corriere, allo stato dei fatti, sembrano essere tre i possibili esiti della crisi libica. Nel primo scenario, Gheddafi viene sconfitto, abbandona il potere e gli subentra una nuova classe dirigente che, nonostante grandi difficoltà, si rivela capace di tenere insieme il Paese e di ristabilire normali relazioni con gli altri Stati. Nel secondo scenario, la guerra civile si protrae a lungo e la Libia sprofonda negli inferi, finisce nel girone riservato agli “Stati falliti”, in compagnia di Paesi come la Somalia o l’Afghanistan. Nel terzo scenario, infine, Gheddafi riprende il controllo dell’intero territorio, Cirenaica compresa, al prezzo di un terribile bagno di sangue. Il primo scenario, ovviamente, è il migliore per la Libia ma anche per noi italiani. Si tratterà di stabilire relazioni con una nuova classe dirigente che, presumibilmente, avrà anch’essa interesse a un buon rapporto con l’Italia, che avrà bisogno dei legami economici con noi, tanto più nella fase della ricostruzione post dittatura. Avevamo, è vero, eccellenti rapporti con Gheddafi, il che ci renderà sospetti ai loro occhi, ma è comunque un fatto che, fra gli occidentali, non siamo stati i soli a coccolarlo. Il realismo imporrà ai nuovi dirigenti libici di non rinunciare a una cooperazione vantaggiosa per entrambi i Paesi. Gli altri due scenari, invece, ci danneggerebbero grandemente. Se la Libia diventasse uno Stato fallito, si trasformerebbe in una piattaforma adibita al trasferimento al di qua del Mediterraneo di fiumi di disperati, di caos, di criminalità e terrorismo, ossia dei frutti avvelenati che crescono sempre negli Stati falliti. E noi saremmo in prima linea, i primi a subirne le conseguenze. Ma anche il terzo scenario, quello che prevede un Gheddafi di nuovo vittorioso in Libia, sarebbe pessimo per noi.In politica internazionale l’ipocrisia è la regola. Fino a ieri tutti, non solo noi italiani, fingevano di non sapere che Gheddafi fosse un turpe dittatore che aveva sempre fatto strame di diritti umani. Lo fingevano i governi, i banchieri, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, persino la prestigiosa Lse (la London School of Economics and Political Science di Londra) destinataria di generosi finanziamenti libici, e tantissimi altri. Adesso però l’incanto si è rotto, adesso Gheddafi è un paria, un ricercato dell’Interpol, un possibile imputato del tribunale penale internazionale. D’ora in poi, fare affari con lui diventerà molto difficile. Se Gheddafi riconquisterà la Libia, per l’Italia saranno dolori, pagheremo un costo economico salatissimo. Per non parlare della difficoltà di ristabilire rapporti di cooperazione su materie sensibili come il controllo dell’emigrazione dall’Africa. Ma è evidente, dopo la risoluzione di oggi, che questa terza ipotesi è ritenuta da Presidente, governo e vertici militari, del tutto non plausibile. Di fatto i problemi sul tappeto, oltre al’enorme e sempre crescente numero di vittime, sono davvero molti e tutti sul tappeto. Ad esempio il fatto che quella libica è una guerra civile atipica, perché Gheddafi è riuscito a distruggere qualsiasi forma di istituzione statale nel paese e in questi 42 anni ha governato mantenendo un delicato ed a volte anche brutale sistema di equilibri tra le diverse fazioni e tribù libiche. Ora questo precario equilibrio si è rotto, anche perché dopo 42 anni di potere è difficile che le cose potessero proseguire come se niente fosse. Non sappiamo molto di quali siano le forze in campo. Sappiamo che le fazioni rivali di Gheddafi controllano ora buona parte della Cirenaica e qualche città anche più a ovest e sappiamo anche che la controffensiva del governo le sta mettendo in seria difficoltà. Certamente la radice della ribellione è rappresentata dalle tribù della Cirenaica, la confraternita della Senussia, che è una delle istituzioni tribali storiche di quella parte di Libia che durante il sistema gheddafiano si è sentita penalizzata rispetto alla rivale Tripolitania anche nella stessa ripartizione dei proventi delle risorse energetiche. Ma circa la più articolato composizione attuale dei rivoltosi e sulle loro intenzioni non sappiamo nulla. Inoltre mettere assieme le tre diverse rivoluzioni del nord-Africa è un grave errore di valutazione. I veri esperti, infatti, ci dicono che, ad esempio, quella egiziana è stata una rivoluzione con una forte base urbana in un paese di 80-90 milioni di abitanti egemonizzati da una metropoli di 20 milioni di abitanti. In Libia invece siamo in una zona scarsamente popolata, con enormi zone praticamente deserte e con la presenza di popolazioni provenienti da regioni dell’Africa centrale e sub sahariana reclutate per il lavoro sporco. Tutti si augurano, ora evidentemente anche il governo, che Gheddafi venga battuto e che possa trionfare una qualche forma di democrazia; ma i dati che abbiamo non indicherebbero una così ovvia possibilità, anche perché la democrazia presuppone uno Stato e in Libia di Stato non si vede proprio traccia. Nella migliore delle ipotesi possiamo parlare di intenzioni democratiche di una parte dei rivoltosi, ma si tratta di ricostruire – se si vuole tenere insieme il paese – un vero e proprio stato unitario. Operazione, storicamente e culturalmente, molto difficile da realizzare. Anche perché, prima di Gheddafi, i libici l’hanno avuta un’esperienza di Stato, che è stata quella dello stato coloniale italiano e da quell’esperienza non hanno tratto nulla di buono, confermandosi nella loro idea che in fondo lo Stato non sia poi questa gran cosa. Come ha dichiarato Luca Carocciolo a Radiocittaperta appena ieri, che prima di andarsi a impelagare militarmente nella guerra civile libica sarebbe opportuno ripensarci sopra e questo vale sia per gli americani che per gli europei. Inoltre al momento, realisticamente parlando, non ci sono né le disponibilità finanziarie né le risorse militari necessarie per andarsi ad accollare i costi militari, umani ed economici di un intervento diretto in Libia, che in molti credono solo minacciato (anche con supremi consigli di difesa) soprattutto per intimidire Gheddafi e per dare l’idea alle proprie opinioni pubbliche che si sta facendo qualcosa. Fin dall’inizio dei combattimenti i paesi occidentali hanno mandato in Libia i propri consiglieri militari, delle missioni d’intelligence, degli addestratori a sostegno delle truppe ribelli. Dicono i ben informati che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, e forse anche l’Italia stanno facendo la propria parte. Circa l’altra ipotesi, quella intermedia, la cosiddetta ‘no fly zone’, cioè l’interdizione al volo per i velivoli impiegati dall’esercito di Gheddafi che dovrebbe quindi favorire le capacità belliche dei ribelli sul terreno; il problema è che anche essa implica una vera e propria guerra, come ha chiarito lo stesso ministro statunitense Gates, che ha ricordato la necessità di bombardare le installazioni della contraerea a terra per poter istituire la zona di non volo e mettere in sicurezza i caccia e gli elicotteri impiegati dai paesi occidentali. Questa ipotesi implicherebbe tra l’altro l’uso delle basi italiane degli USA e della Nato, come ad esempio quella di Sigonella. Infine, tra i molti problemi, c’è quello della possibile infiltrazione islamica. Al Arabiya e soprattutto al Jazeera si sono comportate, in tutte le rivoluzioni e le rivolte in corso nel nord Africa, più che da media da ‘organizzatori’. Al Jazeera ha avuto un ruolo centrale in Egitto, Al Arabiya ha avuto un ruolo più importante in Libia. Sono state diffuse, come quasi sempre avviene in questi casi, una quantità di informazioni false: ad esempio le famose fosse comuni che poi erano in realtà il cimitero di Tripoli o, anche, alle cifre incredibili sui morti diffuse dopo pochi giorni dall’inizio della rivolta. Ma, anche circa questo paventato pericolo, ci dicono gli esperti viene enfatizzo a dismisumara da chi vuole far credere che la caduta di Gheddafi produrrà disastri in termini di migranti e terrorismo. In effetti, ha detto al quotidiano ‘La Stampa’ Afshin Molavi, islamista della New American Foundation di Washington: “Se la gente protesta nel mondo arabo più che in Cina è perché, sebbene in entrambi manca la libertà politica, in Cina c’è una crescita economica. Ciò che fa la differenza è la fame, la miseria, la disoccupazione. L’Islam viene dopo. Se però in Tunisia o Egitto i partiti islamici sapranno proporre validi programmi economici, potrebbero presto arrivare al governo”. Fame, miseria e disoccupazione sono le leve sulle quali si sta sgretolando il sistema di potere che ha guidato i Paesi dell’area. La presunta ‘voglia di democrazia’ è un elemento del tutto marginale, anche perchè in società nelle quali i criteri di rappresentanza sono determinati da equilibri tra clan e non passano per la regola di ‘ogni testa un voto’, ma su quella dell’accordo più o meno stabile tra i capi delle varie ‘reti familiari’, la logica del funzionamento dello Stato deve avere caratteristiche specifiche. Il petrolio, il conflitto israelo-palestinese, il controllo del Canale di Suez e l’importanza strategica delle sponde africane del Mediterraneo hanno indotto Francia, Inghilterra e Stati Uniti a sostenere regimi dittatoriali o corrotti in tutti i Paesi oggi al centro delle rivolte. Ad esclusione di Gheddafi, ma solo per una prima fase. A Tripoli, dopo una prima fase di guerra reale con gli Usa, il colonnello Gheddafi ha cambiato rotta, stringendo accordi commerciali ed economici con l’Occidente, fino ad entrare persino in numerosi consigli di amministrazione di aziende di grande importanza. Per esempio Unicredit o Eni. Da decenni una parte dell’intellighenzia del mondo arabo cerca un modello originale che possa coniugare sviluppo, libertà ed indipendenza. Ma i tentativi sono fino ad oggi tutti falliti. Per citarne solo uno, il fondatore dell’Algeria postfrancese, Ahmed Ben Bella, che fu subito deposto da un colpo di stato militare e rinchiuso in carcere per 14 anni. Sicchè il fondamentalismo moderno, così come scrive la redazione di “Inviatospeciale”, è la conseguenza della umiliazione che l’Occidente ha voluto imporre non solo ai popoli arabi, ma all’intero mondo islamico. Il risultato è stato quello di radicalizzare le posizioni di alcuni settori e di indebolire le forse laiche. In Iran (Paese non arabo, ma mussulmano) si è inventata l’esperienza drammatica di una Repubblica islamica integralista, un esempio potenzialmente espansivo. Ricordiamoci che fino a l’altro ieri, il nostro ministro Frattini, che ha abbandonato una brillante carriera sugli sci, ha detto all’Italia e al mondo che l’Ue “non deve interferire” negli avvenimenti in corso e che per quanto riguarda la Libia è necessaria una “riconciliazione pacifica”, che sostenga le posizioni del figlio Gheddafi, Saif Al Islam. “L’Europa non deve esportare la democrazia. Noi vogliamo sostenere il processo democratico, ma non dobbiamo dire: questo è il nostro modello europeo, prendetelo. Non sarebbe rispettoso dell’indipendenza del popolo, della sua ownership”, ha molto salomonicamente dichiarato. Per non parlare di Maroni che, ai suoi leghisti solo un paio di giorni fa, diceva che gli americani devono darsi una calmata ed entrambi non hanno affatto compreso (o almeno non l’hanno detto e neanche sussurrato), che il malcontento generato dalla povertà e dalla disoccupazione e non da Facebook (come raccontano alcuni) ha bisogno di risposte rapide. Se la Libia dispone di risorse derivanti dal petrolio, lo stesso non può dirsi per Tunisia, Marocco, Egitto, Yemen, Giordania, Siria, Bahrein, ecc. La fuga verso l’Europa è prodotta dalle condizioni di vita miserevoli di milioni di cittadini di quei Paesi e solo il riequilibrio delle differenze di sviluppo potranno fermare l’esplosione del nazionalismo, della sua degenerazione ulteriore in integralismo e la grande migrazione. Oggi è il momento di chiudere definitivamente la pagina del neocolonialismo e del razzismo ed è arrivata l’occasione per affrontare i disequilibri sulle sponde del Mediterraneo. E, questo, senza pericolose esposizioni militari.
Carlo Di Stanislao
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