Due libri da leggere assolutamente, di contenuto ed autori molto diversi, ma che invitano a riflettere sui nostri cambiamenti. Il primo è di Raffaella De Santis, edito da Aragno e intitolato “Le parole disabitate”; il secondo di Marcello Veneziani, dedicato al maestro Seneca e con un titolo molto esplicativo (“Vivere non basta. Lettere a Seneca sulla felicità”), edito da Mondadori. Nel primo ci si ricorda che il Novecento è stato il secolo delle “adunate”, ma anche dei “comizi”, il secolo degli “alternativi” e dei “compagni”, il secolo delle “epurazioni”, ma anche della “emancipazione”, della “Contestazione” e delle sedute di “autocoscienza”. Nel Novecento c’era ancora il “Piccì” e da una parte stavano i “padroni”, dall’altra i “proletar”». Un secolo affastellato di eventi e di oggetti: la macchina da scrivere, il juke-box, il flipper. Si andava a letto prima del Carosello e le signorine snob si scatenavano nel “Palais de Danse” a Londra. Cento parole per riannodare le maglie di un secolo, attraverso le testimonianze degli scrittori e le cronache del tempo. Un catalogo di parole disabitate, uscite dal linguaggio quotidiano per disaffezione o perché passate di moda. Parole spesso abusate e poi diventate fantasma. Scrive Paolo Mauri nella prefazione: “L’operazione non è univoca e nemmeno indolore. Si ricorda con piacere, ma spesso con rabbia o con malinconia”. Nel secondo Veneziani immagina che, nel recente crollo della Casa del Moralista a Pompei, città natale di Lucilio, siano rinvenute le sue epistole al famoso filosofo e letterato latino, coetaneo di Cristo, precettore e poi consigliere di Nerone. Con duemila anni di ritardo Lucilio, attraverso la voce di Veneziani, completa così la corrispondenza, e dialogando con Seneca affronta temi di carattere universale: la felicità e la fortuna, la gioventù e la vecchiaia, la vita e la morte. Le celebri lettere di Seneca a Lucilio sono uno dei classici della letteratura latina oltre che un long seller di molte case editrici: nessuno ha mai finora, però, letto le risposte dell’amico e poeta Lucilio. Le 124 “Epistulae morales ad Lucilium”, scritte nelle ultime fasi di vita del grande filosofo, riassumono in pensiero di Seneca, la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione diatribica. L’opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del disimpegno politico. Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a Seneca da Platone e da Epicuro: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un’unione con l’amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di curvatura profondamente aristocratica), fondata sull’acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici (si dice, di questa forma, “parenetica”). Con duemila anni di ritardo Lucilio, attraverso la voce di Marcelle Veneziani, risponde alle famose epistole di Seneca completando così la corrispondenza. Venti lettere che riprendono i principali temi originali, dalla felicità alla bellezza, dal potere alla morte, dalla ricchezza alla saggezza, replicando di volta in volta agli insegnamenti e alle considerazioni senechiane. Emerge, oltre allo spirito dell’epoca, una riflessione sulla vita che va “non solo vissuta ma pensata e dedicata” e sul suicidio, che a volte, come nel caso del filosofo, diventa una necessità per “vivere nella verità della vita”. Un’opera lieve, non accademica, tra la morale e la filosofia di vita, non priva di analogie, parallelismi e allusioni al tempo presente. Scrive Seneca: “In tre fasi si divide la vita; ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà (quod fuit, quod est , quod futurum est). Di queste, quella che viviamo è breve (his quod agimus breve est), quella che vivremo è dubbia (quod acturi sumus dubium), quella che vivemmo è sicura (quod egimus certum). Questa infatti è quella sulla quale la fortuna ha perduto ogni suo diritto e che non può essere ridotta all’arbitrio di nessuno” (br.v. 10.2). Anticipando pensatori quali Plotino e Agostino, Seneca distingue nettamente il presente dal passato e dal futuro; quindi segnala la precarietà del presente ma, insieme, il fatto che solo esso dipende realmente da noi e dalle nostre decisioni. Forse è possibile avanzare qualche diritto (e rivestire dunque qualche responsabilità) anche riguardo alla vita futura. Ma si badi che in ogni caso il futuro rimane ambiguo, non fosse che per l’eccesso di aspettative che in esso oggi – cioè nel presente – riponiamo. Perciò Seneca si raccomanda di non dipendere dal domani (ex crastino pendere, ep. 1.2; cf. br.v. 9.1 e benef. 7.2.4), cosicché il futuro non ci preoccupi eccessivamente: “Quando mai giungerà il tempo in cui capirai che del tempo non ti importa (scies tempus ad te non pertinere), in cui sarai tranquillo e rilassato, incurante del domani e del tutto pago di te stesso! (quo tranquillus placidusque eris et crastini neglegens et in summa tui satietate!)”, ep. 32.4. Quanto al passato, invece, non possiamo assolutamente nulla: né noi né la fortuna. Saggio è tenere insieme tutti i diversi momenti, cosicché essi acquistino una continuità e una coerenza significativa. Il passato e il futuro possono così essere riscattati nel presente, e il presente diventa in pratica il luogo di accumulazione del ricordo e dell’anticipazione: “La vita del saggio si estende a lungo (multum patet vitam), egli non si trova a essere circoscritto da quei limiti che segnano i confini per gli altri. Egli solo è svincolato dalle leggi del genere umano: tutti gli uomini e le esperienze del passato sono al suo servizio, come a un dio. Un determinato tempo è passato: ebbene, egli lo tiene ben stretto a sé con il ricordo (transit tempus aliquot: hoc recordatione comprendit). Un altro tempo gli sta innanzi: di esso ne usa (instat: hoc utitur). Un altro tempo gli verrà incontro: ecco che egli lo anticiperà (venturum est: hoc praecipit). Il fatto di raccogliere insieme tutti i diversi tempi gli rende lunga la vita (longam illi vitam facit omnium temporum in unum conlatio)”, br.v. 15.5.
Carlo Di Stanislao
Libro di grande interesse che nella rivisitazione del linguaggio fa rivivere i mutamenti storici e di costume che hanno caratterizzato il novecento. Il tutto avvolto da un velo di passione, a volte acre e a volte allegra, e delicata ironia.