Il sito prescelto per l’allestimento della tendopoli degli immigrati si trova proprio sulla strada provinciale che collega il centro abitato di Manduria con quello di Oria. E’ proprio al limite di provincia tra Taranto e Brindisi. Si tratta di un vecchio aeroporto militare utilizzato durante l’ultimo conflitto mondiale. L’intera area, delimitata da vistosi cartelli in tinta gialla riportante la dicitura “Zona Militare”, era impiegata, prima dell’allestimento della tendopoli, come area di addestramento del personale militare effettivo al Battaglione San Marco della Marina Militare di stanza a Brindisi. Oggi, l’intera superficie è occupata da vistose tende di colore azzurro. Sono della protezione civile e ognuna di esse ospita 8 brande. Intorno al campo, lungo l’intero perimetro, una recinzione metallica alta poco più di due metri. Quando arrivo sul posto intravedo, da lontano, una massiccia presenza di divise, casacche di color arancione e numerosissime autovetture dei Carabinieri, della Polizia, della stessa protezione civile, di varie associazioni di volontariato e di curiosi. Sono tutti li! Oltre la rete tanti visi stanchi, sguardi pieni di incertezze, barbe lunghe, capi di vestiario unti e stropicciati. Scene apocalittiche, immagini di altri tempi che forze non ci appartengono o, per meglio dire, appartengono, grazie a Dio, al nostro passato! Ed allora chiudo gli occhi e ripercorrendo a ritroso il tempo immagino i miei nonni, i nostri nonni emigrati all’estero negli anni tristi quando in Italia , nella nostra Italia, non c’era possibilità di lavoro e per questo erano costretti a lunghe e interminabili traversate oceaniche in cerca di maggiori fortune. La mia breve permanenza nella zona antistante l’ingresso alla tendopoli mi consente di percepire chiaramente che la presenza dei giornalisti non è affatto gradita. Non mi chiedo il perché ed allora, animata dallo spirito di chi vuole descrivere la sola verità, mi incammino, da sola, e costeggio l’intera zona recintata adottando tutte le necessarie cautele finalizzate a non attirare lo sguardo delle frequenti pattuglie poste, a distanza intervallata, lungo l’intero perimetro. Sono alla disperata ricerca di assistere e quindi descrivere cosa succede al di là di quella fredda recinzione metallica. E’ quello il limite che separa la disperazione dalla realtà. Le scene che vedo sono difficili da raccontare. Ad un tratto, di fronte a me, lungo la strada asfaltata, sopraggiungono due autobus. Sono carichi di persone. Le pattuglie disseminate lungo il perimetro confluiscono verso l’ingresso. Una di esse, costeggiandomi, mi invita ad allontanarmi. Obbedisco all’intimazione ma dopo essermi allontanata di pochi metri ritorno indietro sui miei passi e, contrariamente a ciò che fanno i miei colleghi, non mi dirigo verso l’ingresso, ma, animata da buona volontà e approfittando della minore vigilanza, mi aggrappo a quella dannata rete metallica e, ad alta voce, cerco di attirare l’attenzione di chi sta dall’altra parte. Cerco di instaurare un dialogo con qualcuno non ha importanza se uomo o donna, adulto o bambino. La mia accorata richiesta viene accolta da una ragazza. Con la mano mi fa cenno di aver aderito all’invito e si dirige verso di me. E’ una ragazza agile e snella, dai capelli a caschetto. Indossa un vistoso giaccone nero e prettamente maschile. Con timidezza mi si avvicina. Dalle feritoie della rete le porgo la mano che mi stringe. Mi guarda negli occhi e, abbassando lo sguardo, mi sussurra:” ciao, sono Amef e sono qui da ieri. Sono Tunisina e sono scappata dalla mia terra per disperazione. Ho affrontato un lungo viaggio in mare e a momenti ho pensato di non farcela. Sono con il mio fidanzato che ora è in tenda. Sono confusa, rattristata, preoccupata e quasi terrorizzata. Tanti nostri amici sono scappati perché vogliono arrivare a Parigi. Anch’io vorrei scappare, ma ho paura che i soldati mi ammazzino”. Sorrido e stringendole maggiormente la mano la tranquillizzo dicendole che ciò non è assolutamente possibile. Mentre le parlo noto il sopraggiungere di un ragazzo. Intuisco subito che è il suo fidanzato. Questi è poco più alto di lei. Dalla carnagione scura e con i capelli ricci, indossa un paio di jeans, una camicia e due maglioni. E’ un po’ più pieno di lei. Mi si avvicina e mostra da subito maggiore indifferenza. Mi scruta dal capo ai piedi e non parla. Gli chiedo come si chiama ma non risponde. Allora, ignorandolo, continuo a parlare con Amef! Le offro una gomma da masticare che accetta volentieri. Analogo invito lo rivolgo all’uomo che accetta. Gli ripeto la domanda chiedendogli il suo nome. Questa volta, dopo una breve riflessione, mi risponde: “ sono Yusuf e lei è la mia donna”. Quindi, afferratala per mano la riporta verso la tenda. Assisto, in rigoroso silenzio alla scena. Non oso contraddire quella decisione che pur non condividendola rispetto comunque. Amef si gira, mi guarda, mi sorride e, con la mano destra mi saluta facendomi intendere che ci sarà, sicuramente un’altra possibilità di incontro. Continuo il mio girovagare. Dall’altra parte di quella dannata rete tanto silenzio, tanta incertezza e, mentre constato tanta desolazione, si avviano i gruppi elettrogeni ed il campo è illuminato a giorno. Poco distante da me una ventina di uomini scavalcano la recinzione e ben presto si allontanano nella circostante vegetazione. Decido di tornare indietro e lo faccio anche con il chiaro intento di rivedere i fidanzati. Mentre sono a metà percorso assisto ad un’altra fuga. Questa volta sono circa 30 persone che scavalcano e, tra queste, c’è anche una ragazza agile e snella, dai capelli a caschetto che indossa un vistoso giaccone nero e prettamente maschile. Accanto a lei un giovane di carnagione scura, con i capelli ricci, che indossa un paio di jeans, una camicia e due maglioni. Con immensa gioia grido a squarciagola “Brava Amef corri felice e non temere perchè nessuno ti sparerà…… Buon viaggio e …quando sarai a Parigi bevi alla mia salute. Sorridi alla vita Amef e segui il tuo Yusuf e, soprattutto, tanta buona fortuna.
Dalla nostra inviata a Manduria Anna Brunetti
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